Quo Vadis?

 

Introduzione: gli sceneggiati (fanta)storici della RAI

Tra gli anni ’60 e gli anni ’80, prima dell’omologazione portata dalle stucchevoli ‘fiction’ TV, cultura e intrattenimento andavano felicemente a braccetto alla Rai nei cosiddetti ‘sceneggiati’ che hanno tenuto incollati agli schermi milioni di italiani. Spaziando dal giallo magico (Il segno del comando) alla fantascienza (A come Andromeda), gli sceneggiati Rai hanno costituito per la televisione un esempio irripetibile di qualità e successo popolare. Ma tra gli sceneggiati di maggior pregio non bisogna dimenticare quelli legati alle grandi narrazioni storiche e alla relative opere letterarie e del mito. Mentre il fantasy nostrano trovava nel cinema peplum la sua strada ‘popolare’, prevalentemente di facile fruizione, nelle produzioni Rai le raffinate trasposizioni dei capolavori della mitologia e del romanzo storico hanno raggiunto risultati di grande qualità sotto l’aspetto della ricostruzione storica, della recitazione, della regia e della sceneggiatura.

La Freccia Nera

Senza rinunciare tuttavia all’intrattenimento e al fascino della storia romanzata o fantasiosa come nel fantasy mitologico dell’Odissea (1968 – di Franco Rossi, Pietro Schiavazappa e Mario Bava), nell’avventura medievale de La Freccia Nera (1968 – di Anton Giulio Majano, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson), nel mistery paranormale L’amaro caso della Baronessa di Carini (1975 – ispirato a una ballata popolare siciliana su un delitto realmente avvenuto nel ‘500), o nell’heroic-fantasy di ispirazione salgariana (Sandokan – 1976). Di seguito vedremo in dettaglio uno degli sceneggiati (fanta)storici Rai meno conosciuti ma da riscoprire per il suo insolito ‘realismo’ storico, apparentemente lontano da qualsiasi facile spettacolarizzazione fantasy.

 

 

Quo Vadis?

 

Ci sono opere che, pur esulando dai canoni della cinematografia di genere fantastico, riescono a trasportare lo spettatore verso mondi lontani caratterizzati da una spiritualità e da un modo di concepire la vita profondamente diversi da quelli tipici del nostro presente. Si tratta di quelle rare pellicole storiche oppure etnografiche che rinunciano consapevolmente alla tentazione di rappresentare gli eventi e i personaggi attribuendo loro la mentalità contemporanea. In questi casi, peraltro rari, la scelta dei registi e degli sceneggiatori è radicale e talvolta viene poco apprezzata. Il grosso pubblico sembra pronto a perdonare gli errori dovuti alle imperizie ricostruttive, o ai compromessi imputabili alle esigenze produttive. Forse neppure si accorge delle approssimazioni, preferisce riempirsi lo sguardo con scenografie e costumi appariscenti, e pretende di potersi identificare con i protagonisti senza fare il minimo sforzo per contestualizzare i loro comportamenti. Le pellicole improntate alla verosimiglianza sorprendono e scioccano questo tipo di spettatore, poiché portano sullo schermo immagini lontane da quanto i vecchi kolossal e un modo semplicistico di insegnare la Storia hanno impresso nell’immaginario collettivo. I personaggi sono quelli del nostro passato, tuttavia è difficile stabilire l’empatia con essi; i luoghi dovrebbero essere familiari e invece sembrano sconosciuti. Dato il rigore filologico, è quasi impossibile sperare in una conciliazione tra i valori del nostro presente e quelli del passato portato sullo schermo. Forse il fantasy viene apprezzato proprio perché, almeno nelle sue espressioni più commerciali, attribuisce stili di vita attuali a personaggi che potrebbero vedere la vita in tutt’altra maniera. Una posizione, questa, difficile da sostenere in una riproposizione fedele del passato. Le contraddizioni tra l’aspettativa del pubblico e la fedeltà ad una ricostruzione restano irrisolte: o ci si cala nei panni di persone condizionate da ritmi di vita diversi, da valori non sempre attuali, oppure è difficile appassionarsi alle loro vicende.

E’ quanto avviene nello sceneggiato Quo Vadis? (1985), diretto dall’esperto Franco Rossi, lo stesso regista che traspose l’Odissea e l’Eneide. La ‘sua’ versione del romanzo del Premio Nobel Henryk Adam Aleksander Pius Sienkiewicz sorprende gli spettatori prendendo le distanze dalle consuete rivisitazioni cinematografiche del passato, spettacolari quanto lontane dalla quotidiana realtà degli uomini di un tempo. Franco Rossi si è attenuto solo in parte alla trama prevista dalle pagine, ovvero narra l’amore contrastato del giovane Marco Vinicio e della schiava cristiana Licia, ai tempi di Nerone. La narrazione apparentemente sembra di mestiere, e concede pochi virtuosismi alle inquadrature o al montaggio, apparentemente si adegua all’andamento placido tipico delle produzioni televisive mosse da intenti didattici. Verrebbe da attendersi un’ennesima trasposizione dai toni educativi, tuttavia basta protrarre la visione per qualche decina di minuti per accorgersi che di novità ce ne sono molte, almeno sul piano dei contenuti. Le note vicende amorose si intrecciano con quanto avviene nell’Urbe, con la tirannia spietata dell’Imperatore e l’affermarsi delle prime comunità cristiane. Lo scrittore polacco aveva descritto la figura di un despota sanguinario e folle, attorniato da una corte di personaggi ora vigliacchi, ora moralmente saldi ma costretti a scendere a patti con le stramberie del sovrano, pur di conservare i privilegi, sopravvivere o di moderarne gli eccessi. In contrapposizione alla corruzione ci sono i primi cristiani e gli Apostoli, descritti con toni agiografici e rappresentati secondo quanto tramandato dalla tradizione, miracoli inclusi.

Franco Rossi recupera la nota vicenda e la rielabora in modo personale, calandosi nello sguardo di un antico Romano che assiste impotente alla decadenza del suo mondo. Scompaiono i prodigi narrati con disarmante ingenuità nell’omonimo kolossal Hollywoodiano degli anni Cinquanta, e il senso di meraviglia decolla affidato alla ricostruzione della vita quotidiana dei Romani con i loro usi e i loro costumi. L’Urbe evocata dalle immagini è verosimile e allo stesso tempo lontana dall’immaginario collettivo, proprio come se fosse un regno fantasy costruito con logica ed arte. Non si tratta di una trasposizione in chiave teatralizzata e simbolica, come poteva avvenire per gli allestimenti minimali dei grandi classici del teatro antico degli anni Settanta, né ci sono tentativi di attualizzare costumi o comportamenti per adeguarli al gusto corrente. Per godersi pienamente questa versione del Quo vadis? è necessario mettere da parte l’idealizzazione di una Roma fatta di candide statue, armature lucenti, banchetti allietati da improbabili danzatrici esotiche, gladiatori pronti a trucidarsi anziché esibirsi in duelli… e personaggi in toga e sandali dotati di una morale e di un credo improntati ai valori oggi condivisi. Franco Rossi sceglie un’estetica coerente con quanto gli storici d’oggi hanno scoperto, e lascia che i cittadini romani patrizi o plebei seguano le loro convinzioni, senza dividerli in ‘buoni’ e ‘cattivi’ a seconda del credo o dell’etnia di appartenenza. Tutti sono colti da dubbi, e possono anche sbagliare rifiutando in toto il passato pur di seguire un credo dopo l’altro, sull’onda della moda. Lo sceneggiato omaggia la grandezza della cultura classica, senza rivolgere accuse al Cristianesimo sulla falsariga degli scritti di Celso, ovviamente; allo spettatore viene chiesto di capire le ragioni dei latini, di calarsi nello sguardo dell’imperatore e magari domandarsi come avrebbe reagito se si fosse trovato nella loro situazione. Si anticipa quanto verrà narrato nel De reditu suo di Claudio Rutilio Namaziano, trasposto liberamente sullo schermo da Claudio Bondì nel 2004: il senso di decadenza incombe su Nerone e sulla sua corte, l’affermarsi del Cristianesimo segna la fine di una civiltà. E’ una sensazione analoga a quella suscitata da J.R.R. Tolkien nell’epilogo del Signore degli Anelli, quando con la partenza degli Elfi e dei Portatori dell’Anello il mondo resterà privo della magia: verrà il tempo degli Uomini, per certi versi migliore, eppure tutto sarà diverso,. Il senso di rimpianto per la grandezza della cultura classica viene semmai reso più grave dalla diversa introspezione riservata ai personaggi. Pietro, interpretato da Max von Sydow, e di Paolo di Tarso, Philippe Leroy, vengono rappresentati in tutta la loro umanità, fatta di entusiasmo e fede, di speranza e di verosimili dubbi. Ogni miracolo resta fuori dalle inquadrature, e il concreto prodigio operato dal cristianesimo è quello di aver portato una visione della vita più incline al perdono.

E’ più difficile parteggiare per gli altri neofiti, persone semplici oppure esaltate dalla novità, prive di quello spessore morale e intellettuale che inviterebbe lo spettatore ad identificarsi in loro. E’ la sorte che il regista riserva a Marco e Licia, che pure dovevano essere i protagonisti: sono due giovani diversi per ceto sociale, troppo simili a tanti altri loro coetanei, siano essi patrizi o schiavi destinati a servire in un ambiente privilegiato. Francesco Quinn e Marie-Theres Relin sono dimenticabili,e il confronto inevitabile con Robert Taylor e Deborah Kerr, protagonisti del kolossal del 1951, li sminuisce. Mancano del fascino esplicito dei divi hollywoodiani, e appaiono impacciati sulla scena, circondati come sono da professionisti affermati, da caratteristi dalla lunga carriera teatrale e cinematografica. Probabilmente Franco Rossi ha scelto di mettere in secondo piano il loro amore contrastato, e il lieto fine che può soddisfare gli spettatori nega loro la grandezza dell’eroismo. Marco mai si è dimostrato uomo d’azione, ha sempre richiesto consigli e ha evitato quanto più possibile ogni azione diretta; sembra un militare di buona famiglia arruolato nella Legione per mettersi in mostra obbedendo ai superiori e magari far carriera ingraziandosi il miglior partito. Licia è una schiava, sebbene di origini elevate tra la sua gente: una perfetta Cenerentola sorretta da una fede ingenua. Nell’epilogo vivranno felici e cristiani, in una domus che poco ha della povertà evangelica e dello spirito comunitario dei primi credenti. Quasi avessero seguito la nuova fede per moda o per il desiderio di ribellione giovanile: è davvero difficile stabilire una minima empatia con i due. Le reazioni dei pagani d’altra parte sono quelle che ci si possono attendere da un popolo che vive un declino sempre più inarrestabile e assiste impotente al crepuscolo del suo mondo. Accanto a parassiti che assecondano ogni capriccio del despota pur di godere di privilegi e lussi spicca Petronio, una sorta di ‘moralista senza morale’ interpretato dal maturo ed affascinante Frederic Forrest. L’Arbiter rimpiange il passato ed è consapevole dei cambiamenti ormai inarrestabili. Si mostra disilluso sulla natura di Nerone e degli imperatori, è interessato alle nuove filosofie sebbene non riesca a concedersi ad esse. Ormai uomo non più giovane, si rende conto del non poter abbandonare il mondo in cui fino ad allora è vissuto per ricominciare una nuova vita daccapo.

Quanto a Nerone, interpretato da uno splendido Klaus Maria Brandauer, non è il folle megalomane descritto dall’autore. Con maggiore verosimiglianza storica, le sue efferatezze trovano ragione d’essere nella mentalità dei suoi tempi e nella ragione di stato. Le esecuzioni dei cristiani vengono spettacolarizzate per dissuadere i cittadini dal seguire idee rivoluzionarie, le persecuzioni sono uno strumento per calmare la plebe sempre sull’orlo della rivolta distogliendola dalle preoccupazioni più concrete. Ogni decisione diviene uno strumento di propaganda e Nerone cerca di gestirla, ricorrendo anche a modi da istrione decisamente insoliti per la mentalità dei Romani vissuti sotto Augusto. Nerone sa di essere prigioniero del suo ruolo, le sue scelte sono state condizionate fin dalla nascita, da giovanissimo è stato costretto a conquistarsi un trono o a venir spazzato via dagli ambiziosi parenti. Forse nemmeno vorrebbe essere un imperatore e preferirebbe dedicarsi alla poesia e al teatro. Il contrasto tra la realtà di cui è prigioniero e le aspirazioni artistiche fanno di lui un uomo sofferto. Né gli antichi culti sembrano portargli conforto: gli dei che erano soliti guidare la vita di ogni romano in ogni istante dell’esistenza si sono ammutoliti, non sanno più come parlare ad un popolo incapace di ascoltare la loro voce. Il misticismo pagano viene immortalato con uno sguardo pieno di malinconia, e grazie alla superba caratterizzazione di Nerone e di Petronio, lo spettatore condivide i loro sentimenti.

Franco Rossi compie quel grande miracolo troppo spesso assente dai fantasy, crea personaggi coerenti e distanti dalla nostra quotidianità, e ce li avvicina con naturalezza. Catturati dall’intreccio e coinvolti emotivamente dai drammi dei protagonisti, non si avverte il bisogno di vedere prodigi, battaglie o sfilate in costume, né viene da rimpiangere pellicole sorrette da un montaggio serrato. Il miglior effetto speciale resta l’aver costruito un mondo lontano e verosimile, popolato da persone invece che da eroi da operetta. Con simili presupposti è ovvio come lo sceneggiato sia destinato a una platea meno incline all’intrattenimento facile, a spettatori maturi pronti a calarsi negli occhi dell’’altro’. Forse per queste caratteristiche la mini serie ha ricevuto un’accoglienza tiepida al suo debutto su RAI 1, nel 1985, e raramente è stata replicata. L’atmosfera è quella che ci si può attendere dal migliore low fantasy, solamente è la realtà, quando supera la fantasia.

 

Autore: Cuccu’ssette – Stanchi del ”solito” cinema ? Troverete su Fendenti & Popcorn recensioni di pellicole fantasy, fantascientifiche, horror, surreali, storiche, famose o tutte da scoprire.