Viy – La maschera del Demonio

Nikolai Vasilievich Gogol in pieno Romanticismo recuperò le leggende del folklore ucraino e diede vita al racconto Viy, incluso nella raccolta Mirgorod (1835). Il Viy è il re degli gnomi e assomiglia poco alle capricciose quanto benevole creature dei boschi incantati occidentali: è invece una presenza minacciosa dal corpo simile ad un mostruoso albero, dotata di poteri sovrumani. La suggestione delle pagine dello scrittore ucraino ha colpito l’immaginazione di svariati registi, che hanno trasposto il racconto in modo più o meno fedele. Si distaccò molto Mario Bava nel suo cult La maschera del Demonio, e anche la recente versione di Oleg Stepčenko rielabora gli eventi in modo assai personale. Sicuramente più fedele al racconto di Gogol risulta il film Viy del 1967, considerato il primo vero film dell’orrore della cinematografia russa sovietica.
Nel 2014, dopo una tormentata realizzazione, è uscito nelle sale Viy – La maschera del Demonio che può essere ritenuto un remake della pellicola del 1967. La pellicola sfrutta tutto il repertorio dei film favolistici e fantasy, rivedendo la vicenda in chiave razionalistica. Non è un caso se il protagonista è Jonathan Green (Jason Fleming), un cartografo britannico inventore di un’apparecchiatura per la misurazione delle distanze. Malvisto dal padre della facoltosa fidanzata, viene costretto ad abbandonarla nonostante aspetti un figlio da lui. Si ritrova a vagare per le zone più remote dell’Europa, e finisce in uno sperduto villaggio rurale. I contadini vivono in un clima di perpetuo terrore: una ragazza è stata uccisa e durante la veglia funebre nella chiesa che sovrasta il villaggio sono accaduti eventi spaventosi. In un clima di opprimente superstizione Jonathan su ritrova ad indagare sui drammatici eventi…
Dal punto di vista estetico il film è una festa per l’occhio, le inquadrature ricordano l’arte figurativa preraffaellita e le illustrazioni delle vecchie fiabe mitteleuropee. Il piccolo microcosmo del villaggio prende vita in immagini sontuose, e gli spettatori si trovano immersi in un mondo lontano, fuori dal tempo proprio come in un racconto di magia. Paesaggi idilliaci si alternano a scenografie cupe, e il pericolo incombente viene inizialmente suggerito da fugaci particolari. Le misteriose entità, lasciate immaginare in un primo tempo, vengono poi a mostrarsi. Con maestria la sceneggiatura introduce gli effetti speciali realizzati con la grafica digitale; sono artifici tutt’altro che rozzi, e soprattutto, sono sempre funzionali allo sviluppo della vicenda. Non potrebbe essere altrimenti, perché il Viy appartiene a un mondo ancestrale, dove il cristianesimo convive con antiche leggende e le superstizioni sono parte della vita quotidiana, la stregoneria è diffusa e misteriose entità popolano i boschi e i fiumi. Sarebbe stato impossibile, rinunciando ai prodigi tecnici, creare un fantasy dalle tinte gotiche, visivamente accattivante e illuminato dall’indiscusso fascino del folclore slavo. L’orrore nasce dalle atmosfere cupe e sebbene alcune sequenze risultano inquietanti, come le visioni del protagonista durante una bevuta all’osteria con i Cosacchi o quanto avviene nella chiesetta, la sceneggiatura privilegia gli aspetti fantastici e folcloristici piuttosto che calcare la mano su scene ributtanti, un po’ come è avvenuto per le rivisitazioni dark delle più celebri fiabe. Fino all’epilogo lo spettatore non sa se quanto vede è frutto della suggestione collettiva o se il Male ha davvero una sua forma corporea.
Il montaggio ben scandisce gli eventi, alternando i diversi registri narrativi del cinema di genere fantastico, dell’avventura, della commedia senza mai perdere il giusto ritmo. La lunghezza della pellicola, ben 146 minuti, è notevole, eppure la tensione rimane alta.

Vij - 2014
Apparentemente la vicenda è un fantasy, analogo per alcuni aspetti a Il mistero di Sleepy Hollow (1999): Jonathan Green come Ichabod Crane ha fede nella scienza e diffida dalle superstizioni, entrambi si trovano a lottare contro entità sovrannaturali o ritenute tali e finiscono per essere coinvolti in vecchie faide di paese. Come ne I Fratelli Grimm e l’incantevole strega (2005), le mistificazioni abbondano e c’è sempre chi approfitta degli ingenui. Viy – La maschera del Demonio è alleggerito da qualche pausa comica che apparentemente sembra un’aggiunta superflua e invece può essere un doveroso omaggio a Gogol. Leggendo le pagine del racconto ci si imbatte in descrizioni realistiche di alcuni paesani, e ci sono momenti quasi farseschi contrapposti a pagine ovviamente cupe. Resta poco altro dell’opera del narratore ucraino, a parte i tre seminaristi, il teologo Khaliava (Ivan Mokhovikov), il retore Tibery Gorobets (Anatoliy Gushchin) e il filosofo Khoma Brut (Aleksey Petrukhin). Il racconto originale è basato sulle paure primordiali dell’umanità, sul panico generato da quanto ci è ignoto, e su come questo sentimento influenzi la psiche. La reinterpretazione offerta dal regista sembra ispirarsi alla cultura russa contemporanea, con un occhio attento alla lezione del cinema d’oltreoceano: per i più curiosi, resta sempre valido l’invito a riscoprire un classico della letteratura.
A differenza di pellicole come Van Helsing (2004), create per intrattenere senza riflettere troppo, Viy – La maschera del Demonio offre alcuni spunti di riflessione e permette più livelli di lettura. La trama fiabesca è lo spunto per contrapporre due opposte visioni della vita, quella del razionalista Jonathan e quella dei superstiziosi paesani. I due mondi si confrontano attraverso l’alternarsi di sequenze ambientate nel torvo villaggio e altre dedicate a quanto avviene nel frattempo in Inghilterra. Il protagonista invia tramite piccione viaggiatore alcune lettere alla fidanzata; i messaggi vengono intercettati dal padre, che poco a poco cambia opinione sul cartografo ed accetta il nipotino. L’espediente consente di alternare le diverse ambientazioni, creando una studiata discontinuità.

Spoiler!

Sembra uscire vittoriosa la visione positivista: la soluzione del mistero è tutta terrena, il Viy è una maschera indossata per giustificare le nefandezze perpetrate dai potenti. Basta una pelle di montone e qualche corno cucito nei punti giusti, per dare una spiegazione sovrannaturale a una brutalità tutta terrena. Nel piccolo villaggio la malvagità si annida nel cuore della gente e prende le orribili forme degli esseri tipici del folclore locale, siano essi streghe, vampiri o lo stesso Viy.

Nel Secolo dei Lumi il Male è frutto delle scelte sbagliate dei singoli individui, mossi dalla cupidigia o dalla lussuria. Demoni e mostri appaiono all’uomo illuminista come un retaggio dei secoli bui, presenze inventate per dare una spiegazione a quanto la Scienza ancora conosce poco, o peggio, spauracchi creati per controllare le masse inconsapevoli. Lo stesso Jonathan Green assiste ad eventi inspiegabili, tuttavia ha dalla sua la fede nella Scienza, e può razionalizzare i fatti riconducendoli a fenomeni di suggestione collettiva, ed individuale. La religione e i suoi rappresentanti fanno una ben misera figura, o piuttosto, è la religiosità puerile e credulona ad essere denigrata. E’ facile per il clero istruito dominare le menti semplici degli abitanti del villaggio, analfabeti vissuti senza contatti con altre realtà, con l’acquavite come unico svago e la scimitarra facile. Con un simile retaggio culturale e con l’abuso dell’acquavite la suggestione si impadronisce degli ingenui, che assistono terrorizzati alle prediche e ‘vedono’ le entità di cui hanno da sempre sentito parlare. Cadono negli inganni i poveri e i benestanti, incluso il padre della fanciulla uccisa, il ricco Sotnik (Yuriy Alekseevich Tsurilo): le monete d’oro forse possono bastare per trasformare una chiesetta di legno in un monastero, ma senza i lumi della cultura si resta sempre vittime. Il crollo del crocefisso e il costume abbandonato sull’erba ben simboleggiano la caduta degli ‘idoli’, ovvero dei pregiudizi e dei tabù creati, coltivati ed inculcati nell’immaginario dei paesani, ed è il giusto contrappasso per il colpevole. Mentre si consuma l’ultimo atto della fosca vicenda, una diversa croce affiora dalle acque del fiume. Una fanciulla accusata di stregoneria, e in realtà scomoda testimone degli eventi, è stata gettata nei flutti: in parallelo con la punizione del colpevole, il legno torna a galla. La purezza sopravvive alla perversione, ed è anche simboleggiata dai bambini che vengono intrattenuti dal cartografo con una sua invenzione… un po’ in anticipo con i tempi. Per tutta la durata del film erano stati mostrati esclusivamente personaggi adulti, o al limite giovani uomini, persone buone oppure corrotte, in ogni caso lontane dall’innocenza.

L’epilogo edificante premia la visione illuministica del protagonista, che riparte verso Oriente. Un piccolo spirito sopravvissuto al trionfo della Ragione però si insinua nella borsa del buon cartografo: presagio dell’avvento del Romanticismo, con la riscoperta del folklore, oppure voglia di sequel? I presupposti per far proseguire il viaggio di Jonathan Green ci sono tutti, Viy – La maschera del Demonio, benché poco noto in Occidente, ha sbancato i botteghini sovietici e periodicamente circolano voci sulla realizzazione di un seguito. Non c’è che da attendere.

 

Autore: Cuccu’ssette – Stanchi del ”solito” cinema ? Troverete su Fendenti & Popcorn recensioni di pellicole fantasy, fantascientifiche, horror, surreali, storiche, famose o tutte da scoprire.

 

Titolo Originale: Viy
Regia: Oleg Stepchenko
Produzione: 2014 –  Russia, Ucraina – Durata: 146 min.
Interpreti: Jason Flemyng, Andrey Smolyakov, Aleksey Chadov, Charles Dance

 


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