“L’amaro caso della Baronessa di Carini” è uno sceneggiato realizzato dalla RAI nel 1975 con la regia di Daniele D’Anza (1922-1984), già autore del fortunato ‘Il segno del comando’.
Il soggetto creato da Daniele D’Anza e da Lucio Mandarà (1923-2009) si ispira al folclore siciliano e alle leggende fiorite attorno alla figura della nobildonna Laura Lanza di Trabia: nella seconda metà del 1500 la baronessa fu uccisa dal marito o forse dal padre, a Palermo. Fu un delitto d’onore, e l’impronta della mano insanguinata si renderebbe ancor oggi visibile sulla parete di una stanza del castello, ogni quattro dicembre, nell’anniversario del delitto. E’ lo stesso regista a tramandare la leggenda, attraverso un incipit che ammicca visivamente ai capolavori del Neorealismo, al cinema documentaristico etnografico, e alla tradizione divulgativa della televisione italiana del periodo. Le sequenze appaiono volutamente essenziali, a partire dai movimenti di macchina semplici che immortalano il paesaggio della cittadina siciliana in un sobrio bianco e nero. Con immediatezza l’autore si rivolge alla platea e comunica la poetica sottintesa al suo modo di fare televisione.
La macchina da presa scorre sul castello e sulla piazza del paese; fa la sua comparsa un cantastorie, artista girovago che fino alla diffusione di radio e televisori recitava nelle piazze dei paesi cantando fatti di cronaca nera, adattamenti di trame d’opera e di famosi feuilleton, eventi storici romanzati. Agli inizi degli anni Settanta rappresentava un ricordo del passato rurale, evocato con malinconia nei racconti degli anziani oppure considerato dai giovani un intrattenimento per poveri analfabeti. E’ solo un passaggio del testimone, lascia capire il regista: l’umanità ha ancora bisogno di sentirsi raccontare storie coinvolgenti piene di eroi coraggiosi, di sognare amori idealizzati, e anche di venire spaventata da episodi truci. Ieri c’erano i cantastorie e i romanzi a puntate con le illustrazioni; oggi c’è la televisione e il compito di intrattenere con intelligenza spetta a quanti creano gli sceneggiati. Il nuovo media racconterà una storia a tinte forti, ben radicata nell’immaginario, una vicenda cupa d’amore e morte, di sette segrete, di reincarnazioni e predestinazione…e lo farà mantenendo intatto lo spirito di quel tipo di narrazioni che appassionavano i lettori di un tempo.
Pur trattandosi di una trasmissione televisiva, L’amaro caso della baronessa di Carini viene presentato come un “romanzo popolare in quattro puntate”. L’introduzione lenta ed atipica è indispensabile per fornire allo spettatore la giusta chiave di lettura degli eventi: i protagonisti si troveranno ad affrontare situazioni eccezionali, e il loro comportamento sarà quello che ci si attende da eroi dei romanzi a puntate.
Lo spettatore viene così introdotto in un universo fittizio sospeso tra realtà e leggenda, tra fatti verosimili ed eventi fantasiosi che vanno a riempire le righe bianche delle pagine della Storia.
Il soggetto prende spunto dalla leggenda, la reinventa ed ambienta i fatti a Carini, nel Regno delle Due Sicilie, poco prima che entrasse in vigore la costituzione che privava i feudatari dei loro privilegi e che avrebbe restituito baronie e contee ai loro veri proprietari. Il giovane Luca Corbara arriva in paese per scoprire le prove dell’usurpazione di un vicino feudo, Daina Sturi, da parte degli antenati dell’attuale Barone, Don Mariano d’Agrò. Le sue indagini sono osteggiate dal nobile, e scatenano una serie di morti, ricatti, intrighi. Il protagonista si lega con la Baronessa; e man mano che la vicenda prosegue, si susseguono colpi di scena d’ogni genere, fino al drammatico epilogo.
L’amaro caso della Baronessa di Carini sfugge a rigide classificazioni di genere: non è un fantasy e i possibili elementi fantastici trovano una motivazione concreta. La platea poco avvezza alle ambiguità dei mistery viene rassicurata dalle spiegazioni positiviste, tuttavia esse giungono nel momento dell’epilogo. In modo analogo a quanto visto ne Il Segno del Comando, l’interpretazione realistica viene sminuita e il sovrannaturale aleggia nelle atmosfere cupe. E’ affidato alla fantasia popolare, pronta a rielaborare gli eventi terreni e a dare interpretazioni suggestive. La miniserie si ispira all’ horror gotico, fatto di castelli e cupi sotterranei, di omicidi e sette segrete. Molte sequenze sono pervase da un blando erotismo e da ammiccamenti sadomaso, tuttavia c’è ben poco di esplicito, a parte la celeberrima sequenza del delitto e la altrettanto famosa traccia della mano insanguinata sulla parete. Inutile attendersi un ‘giallo’ in costume poiché per gran parte dello svolgimento lo spettatore manca delle informazioni necessarie per scoprire la verità. Inoltre gli elementi di intrigo e suspense vengono sminuiti dall’intreccio sentimentale, sebbene le parti amorose restino parentesi tra un complotto e una pugnalata.
Il pregio della miniserie è proprio la disinvolta capacità di fare propri tutti gli elementi più notevoli delle narrazioni di genere, abbattendo qualsiasi barriera e superando qualsiasi pregiudizio sulle possibili contaminazioni. Quanto fa presa sull’immaginazione viene rielaborato e riproposto con creatività, mantenendo alto l’interesse per la durata di circa quattro ore, diluite in quattro settimane.
I fatti sono scanditi dalla famosa sequenza del duplice omicidio, riproposta più volte con montaggi differenti: il delitto cinquecentesco viene mostrato ogni volta con nuovi dettagli. Il protagonista cambia abito spesso, a volte veste un completo nero con calze e scarpe nere, a volte le calze sono rosso scuro, e nell’epilogo indossa le calze ciliegia e degli improbabili stivali da cavaliere.
Spoiler!
Alcuni cambiamenti nell’arredo delle stanze e nell’aspetto degli attori invece potrebbero essere frutto di piccole sviste, mai corrette in quanto poco appariscenti. Gli sceneggiati andavano in onda una puntata per settimana e la platea casalinga dimenticava le eventuali incongruenze, i videoregistratori erano diffusi soltanto tra irriducibili appassionati e lavoratori del settore cinematografico e le repliche erano una piacevole rarità. Inoltre gli spettatori più maturi erano abituati al teatro d’avanguardia e agli allestimenti alternativi dei grandi classici dell’epica e della drammaturgia classica, con cavalli di legno al posto di ippogrifi, mura troiane costruite con i bidoni della benzina, costumi contemporanei invece di armature e toghe..
Il regista e il suo affiatato team erano consapevoli di poter soprassedere su eventuali bloopers, e quindi si preoccuparono di valorizzare tutti gli aspetti della vicenda destinati a imprimersi nell’immaginario collettivo: l’atmosfera romantica, il senso del destino ineluttabile, il ripetersi del passato, la predestinazione dei tre protagonisti, le macchinazioni politiche della setta dei Beati Paoli, il mistero. L’ambientazione è popolaresca e al contempo dotta, la sigla iniziale con tanto di ballata in dialetto è indimenticabile, e la voce di Gigi Proietti incarna la coralità tipica di certe manifestazioni di pubblica pietas. Come in certe processioni della Settimana Santa accompagnate dalla banda, il dramma si ripete seguendo una precisa iconografia. Il montaggio alterna i necessari titoli di testa e le sequenze del delitto, rappresentato con tratto naif su un cartellone, e inscenato dagli attori.
La suggestiva colonna sonora viene usata anche per sostituire certi dialoghi, altrimenti melensi o banali. I momenti sentimentali si risolvono in un gioco di sguardi e di gesti accennati, accompagnati dal tema strumentale, mentre le scene drammatiche sono sovrastate dalla ballata.
Tutti i copioni hanno battute significative, e sono stati affidati ad interpreti con alle spalle solide carriere teatrali: Ugo Pagliai, Adolfo Celi, Enrica Bonaccorti, Paolo Stoppa, Guido Leontini, Vittorio Mezzogiorno, solo per dirne alcuni. Grazie alla loro professionalità, i personaggi hanno acquisito una caratterizzazione indimenticabile e la miniserie è diventata un vero e proprio cult ricordato con affetto nonostante l’epilogo tragico. O forse proprio grazie ad esso, poiché la conclusione è amara, e lo spettatore è stato preparato ad essa da tutta una serie di indizi. Il personaggio di Luca Corbara inizialmente assomiglia a un eroe senza macchia né paura; col progredire degli eventi si scopre che il suo accanimento nello scoprire la verità ha radici profonde e diverse dal senso di giustizia. Purtroppo cede alla passione invece di attendere il momento opportuno per passare all’azione. Viene spontaneo domandarsi quanto sia diverso dal feudatario Don Mariano, e quanto potrebbe essere migliore di lui, se potesse rimpiazzarlo. Il legame con la Baronessa all’inizio sembra una passione capace di superare i limiti della stessa vita umana, alla fine assomiglia alle relazioni tipiche dei film di spionaggio, dettate da temporanee alleanze e dal senso di precarietà dell’esistenza degli agenti segreti. Credibile e umano il feudatario, un ruolo affidato a Adolfo Celi, un “cattivo” a tutto tondo. Il matrimonio con Donna Laura è in crisi, lui l’ama e lei gli si nega. Ossessionato dal potere, teme di perdere la compagna e si consola con la figlia del notaio, tuttavia non gli basta. Da uomo sgradevole quanto intelligente, è consapevole di attrarre grazie al potere e alle ricchezze. Di conseguenza, appena avverte il pericolo rappresentato dal piacente e audace rivale, reagisce con le uniche armi che ha a disposizione, l’astuzia, la violenza e l’intrigo. La Baronessa più che un’eroina romantica vittima di Cupido, è una donna piacente e giovane legata senza entusiasmo a un marito vecchio di cui si è annoiata; e a modo suo “usa “ l’amante, e si lascia sfuggire di mano la situazione. Nessun personaggio è positivo, e lo spettatore ha il tempo per rendersene conto grazie alla pregevole caratterizzazione, sviluppata con i ritmi pacati degli spettacoli televisivi. La sceneggiatura nel corso delle prime tre puntate porta gli spettatori a parteggiare per Luca e per Donna Laura, lascia immaginare che siano reincarnazioni della Baronessa e del suo amante, tornati per spezzare la maledizione e sconfiggere il feudatario vecchio e crudele. L’ultima puntata svela i cupi retroscena e la platea può distaccarsi affettivamente dai protagonisti, accettando il loro tragico destino.
Ben altra sorte è toccata allo sceneggiato: fin dalla prima messa in onda divenne un vero e proprio fenomeno di costume, seguito in tutta la penisola da spettatori diversi per età e per condizioni sociali. I ragazzini riproducevano la famigerata mano sulle pareti di scuole e ritrovi della gioventù, ci furono rivisitazioni portate in scena dai goliardi. Il Carnevale di Montelepre ne prese ispirazione per “U matrimoniu”, sfilata con tanto di omaccione vestito da “Baronessa Laura Lanza di Carini” e il Barone “Ludovico Cornagallo di Montelepre” seguiti da un codazzo di damigelle pronte alla battuta piccante.
Acclamato dalla critica e osannato dagli spettatori, fu probabilmente uno dei più riusciti esempi di produzione televisiva, ed è rimasto nel cuore degli spettatori. Il meritato successo è dovuto alla qualità, e a molteplici fattori dovuti al clima culturale ed alle consuetudini sociali del periodo. L’impatto che lo sceneggiato ha avuto nel costume degli Italiani, il modo in cui si è ancorato all’immaginario di quanti lo hanno visionato alla sua prima trasmissione, sono almeno in buona parte dovuti a condizioni oggi irripetibili. Se uno spettatore giovane oggi visiona L’amaro caso della Baronessa di Carini probabilmente lo trova lento, recitato in modo troppo enfatico, con attori dall’aspetto dimesso. Inutile voler cercare di ritrovare le stesse emozioni di un tempo nel remake del 2007 girato da Umberto Marino. La sceneggiatura è più snella e si ispira a quella cinematografica, le riprese hanno perso la staticità dei vecchi teleromanzi, la fotografia si avvantaggia degli opportuni ritocchi, e c’è un lieto fine inaspettato. La scelta di modificare una vicenda nota pur di compiacere il pubblico ha acceso discussioni, e indipendentemente dalle opinioni, i dibattiti hanno stuzzicato l’interesse. Una produzione di buon livello, godibile al pari di tante altre, ha goduto così di un breve momento di gloria prima di tornare nell’anonimato. Per trasformare una miniserie in un cult ci vuole ben altro, e non basta riproporre il dramma della Baronessa per compiere il miracolo.