400 Days

400 Days

 

Come per il cinema horror, anche per la fantascienza, per trovare nuove idee, bisogna guardare al cinema ‘indie’ che cerca di restituire a questo genere la sua dimensione più speculativa e introspettiva, lontana (anche per motivi di budget) dai frastornanti effetti speciali che tendono ad omologare e appiattire tutto. Naturalmente i film che vi presenteremo sono ben lungi dall’essere esenti da difetti ma non rinunciano comunque a utilizzare elementi o attributi propri di altri generi per suscitare l’interesse dello spettatore come il thriller, il mistery, il fantastico surreale, il weird, il dramma psicologico/sentimentale…, stando volutamente al di fuori dalle logiche spettacolari hollywoodiane.
Anche il film apparentemente più commerciale, Cloverfield 10 Lane (pseudo-sequel del film di mostri Cloverfield), cerca di stupirci prendendo strade non troppo scontate, comunque diverse da quelle del famoso quasi omonimo predecessore.

 

 

 10 Cloverfield Lane

 

Cloverfield 10 Lane - Poster

10 Cloverfield Lane (2016) ha avuto una genesi travagliata, infatti inizialmente lo script originale si intitolava The Cellar e riguardava una giovane ragazza che si svegliava dopo un incidente d’auto e si ritrovava rinchiusa in una cantina con un custode che sosteneva che il mondo esterno era stata devastato da un attacco nucleare e non era possibile avventurarsi fuori. Si trattava di un progetto di Dan Trachtenberg, allora conosciuto solo come regista di un film live-action del videogioco Portal. In seguito, probabilmente interessato alle potenzialità dello script, è intervenuto il vulcanico e invadente J. J. Abrams con la sua Bad Robot e il film è diventato 10 Cloverfield Lane, una specie di sequel del monster movie found-footage Cloverfield. Bisogna dire però che i legami tra i due film sono fortunatamente molto labili e non hanno rovinato la sostanziale riuscita di 10 Cloverfield Lane. E’ sembrata perlopiù una trovata di marketing per accrescere la curiosità sul nuovo film. Quindi il thriller claustrofobico di Trachtenberg, che vede tre personaggi chiusi in un bunker per sfuggire a un’ignota minaccia esterna, non diventa prevedibilmente un film di mostri giganti come il primo Cloverfield. Ma ci riserva ugualmente qualche sorpresa, virando, in stile “Shyamalan“, dal thriller misterioso alla fantascienza con venature horror. Lo script originale nel finale non dava spiegazioni dettagliate sulla catastrofe avvenuta, invece quello definitivo del film, pur rimanendo ‘aperto’ per un possibile sequel, decide di omaggiare ‘pesantemente’ un altro classico film di fantascienza. Ma il risultato finale di questo prodotto ibrido rimane comunque abbastanza godibile.

Spoiler!

Si scopre verso la fine che l’eccentrico e ambiguo occupante del rifugio sotterraneo è veramente un assassino psicopatico che però non mente quando afferma che all’esterno è avvenuta una terribile calamità. Infatti quando la giovane protagonista riesce a fuggire dal bunker, scopre con orrore che c’è stata un’invasione aliena (ancora in corso) con tanto di navicelle volanti e di creature segugio vermiformi che danno la caccia ai superstiti umani. La scena in cui la ragazza cerca di sfuggire agli alieni nascondendosi nella fattoria abbandonata ricalca fortemente quella analoga de “La guerra dei mondi”, non solo il classico del 1953 ma anche il recente remake di Spielberg con Tom Cruise. Poi, nel finale aperto vediamo la giovane dirigersi verso Houston pronta a unirsi ai superstiti per la guerra contro gli alieni invasori….

Non c’è traccia quindi degli inesplicabili mostri giganti ‘semi-lovecraftiani’ presenti in Cloverfield, a meno che J. J. Abrams non decida in un futuro sequel di rimetterli in mezzo come parte di un’invasione messa in atto con differenti mezzi e tipologie di creature. Ma per ora 10 Cloverfield Lane sta in piedi da solo come un ottimo thriller senza fronzoli, ambientato per tre/quarti in un ambiente chiuso, sorretto da un cast eccellente a cominciare da un monumentale John Goodman, nella parte di Howard, un maniaco della sopravvivenza anche simpatico e ospitale ma sinistramente minaccioso al tempo stesso. Ma il punto di vista della narrazione è quello di Michelle (Mary Elizabeth Winstead), riluttante ospite di Howard che si trova di fronte a due enormi dilemmi che reggono tutta la suspense del film: deve credere al suo bizzarro carceriere quando le dice che nel mondo esterno l’aria non è più respirabile a causa di una catastrofe non ben specificata? O è preferibile fuggire dal rifugio e affrontare una probabile minaccia ignota esterna piuttosto che vedersela con lo squilibrato padrone di casa? Sicuramente Howard nasconde qualche segreto… Poi nel bunker c’è un secondo ospite (John Gallagher Jr) piuttosto spaesato e sprovveduto di fronte all’imponente Howard/Goodman e ai tentativi di Michelle di portarlo dalla sua parte per cercare una via di fuga. Un altro punto di forza del film sono ovviamente i dialoghi, sempre efficaci in un thriller claustrofobico che rifugge fortunatamente le complicazioni da psicodramma pieno di strilla e litigi, potenziale pericolo in un film che si svolge quasi tutto in interni. Solo dopo la fuga di Michelle abbiamo un po’ di concessione agli effetti speciali e all’azione adrenalinica in stile J. J. Abrams.

 

Svegliandosi dopo un incidente stradale una giovane donna si ritrova rinchiusa in un seminterrato attrezzato come un bunker da un uomo che dice di averla salvata da un attacco chimico che ha reso la zona inabitabile e l’aria irrespirabile… 


 

400 Days

 

400 Days - poster

400 Days (2016), come il precedente 10 Cloverfield Lane, è un thriller mistery fantascientifico che colloca dei personaggi in un ambiente chiuso, ovvero un rifugio sotterraneo che ‘simula’ un’astronave che viaggia nello spazio, e li mette di fronte a scelte difficili e misteri insondabili che riguardano il mondo esterno da cui sono stati isolati per condurre questo singolare esperimento astronautico. Si tratta di uno spunto di partenza molto intrigante e promettente ma che tuttavia non viene sviluppato e portato a termine nel migliore dei modi. Scritto e diretto da Matt Osterman, 400 Days è un film low-budget inizialmente trasmesso su Syfy Channel  che deve fare a meno degli effetti speciali e puntare tutto su una sceneggiatura che tocca molte tematiche e argomenti suscitando nello spettatore un gran numero di interrogativi. Interrogativi però destinati a rimanere tali vista la troppa carne messa al fuoco da Osterman, anche se gli amanti dei misteri insoluti si sono scatenati in rete per trovare una soluzione ai numerosi punti oscuri disseminati nella pellicola e dare una risposta all’enigmatico finale.
400 Days sicuramente non annoia ma la delusione è sempre dietro l’angolo quando si creano grandi aspettative mettendo in campo tanti spunti stimolanti che poi rimangono incompiuti o incomprensibili. Come nel film precedente, abbiamo un piccolo gruppo di persone rinchiuse in un ambiente ristretto, ovvero 4 futuri astronauti che devono affrontare un test della durata di 400 giorni allo scopo di simulare le loro reazioni ad un lungo viaggio nello spazio. Naturalmente non dovranno uscire dal loro bunker/astronave per nessun motivo prima dei fatidici 400 giorni, anche quando strani accadimenti e visitatori imprevisti li costringeranno a mettere in discussione le loro priorità e a dubitare delle loro stesse percezioni. Ma la ‘materia’ è delicata e il regista con il proseguire della vicenda non sempre appare in grado di gestire il tutto. I personaggi che costituiscono i membri dell’equipaggio sono piuttosto stereotipati (il macho aggressivo, il nerd sensibile, la dottoressa problematica, il ‘buono’ ex compagno della dottoressa) e l’ambientazione costituita dagli alloggi dell’astronave sembra abbastanza improbabile e inadeguata per una simulazione di un viaggio spaziale. Il film inizia come un thriller complottistico fantascientifico che dissemina fin dall’inizio indizi contraddittori sulla reale portata e natura della missione e prosegue instillando nello spettatore un crescente numero di dubbi: che cosa è accaduto fuori dal bunker sotterraneo durante l’esperimento? Quello che è successo nel mondo esterno fa parte della simulazione o è accaduto realmente? O forse si tratta solo di allucinazioni indotte sempre a scopo sperimentale? O di un machiavellico complotto dagli scopi ignoti? Forse uno dei quattro membri dell’equipaggio sa qualcosa di più degli altri? E, aggiungiamo noi, quanto il regista è stato consapevole di tutto ciò, oppure si è fatto prendere la mano dalla voglia di stupire a tutti i costi? Sicuramente 400 Days ha il fascino insolito di un vecchio episodio della serie TV Ai confini della realtà ma poi sembra perdersi in una miriade di altre strade (senza uscita) e altri generi come se non volesse farsi mancare nulla: cospirazioni alla X-Files, viaggi nello spazio, allucinazioni paranoiche, cataclismi cosmici, survival-horror, cannibali post-catastrofe in stile “Le colline hanno gli occhi” e così via…
Il cast di solidi professionisti offre una prova dignitosa a cominciare da Brandon Routh (Superman Returns) e proseguendo con Caity Lotz (Arrow), Ben Feldman (Cloverfield) e Dane Cook. Coloro che vogliono dare credito al regista e agli sceneggiatori ritengono che il film abbia fornito un sacco di indizi per spiegare la fine. Chi fosse interessato a chiarire i punti oscuri della pellicola può aprire lo spoiler sottostante.

Spoiler!

Stando a certi indizi disseminati nella pellicola, si potrebbe propendere per la teoria dell’ esperimento psicologico, per quanto insensato e bizzarro possa apparire. Fin dall’inizio, può sembrare che la dottoressa sia una parte integrante di esso. “Ricorda il nostro accordo” le dice infatti il direttore del progetto prima dell’inizio della missione simulata. Vediamo la dottoressa Emily, somministrare iniezioni agli uomini, ma non a lei stessa, che invece prende delle pillole. Le pillole la aiutano a mantenersi lucida, mentre le iniezioni sembrano causare allucinazioni negli uomini. Anche la sua presunta morte era una messinscena, dopo aver preso delle pillole in più. Le sostanze allucinogene somministrate possono spiegare le visioni, per questo motivo il ragazzo botanico, Bug, continua a vedere il figlio morto. Quando si sentono delle esplosioni, la nave sembra scivolare, infatti Bug, interpretato da Dane Cook, chiede: “Siamo in movimento?”. Come se si trovassero su un palco che viene spostato per il prossimo cambio di scena. Quando l’equipaggio decide di uscire dal rifugio/astronave si ritrovano in un mondo avvolto dall’oscurità e cosparso di polvere ‘lunare’. Ma se veramente la luna (o parte di essa) fosse andata distrutta per qualche collisione cosmica, come viene ipotizzato, ci sarebbero sicuramente molti più danni… Inoltre sembra essere sorta nelle vicinanze una cittadina che l’equipaggio non ricordava esserci prima dell’esperimento. E per di più dotata di energia elettrica, cosa assai improbabile dopo un cataclisma cosmico. Che si tratti di una elaborata messinscena viene subito sospettato da Bug che trova familiari tutte le persone della città in cui gli sembra di riconoscere i giornalisti presenti all’inaugurazione della missione. Infatti quando si avvicina troppo alla verità viene fatto scomparire opportunamente. Nonostante lo scontro mortale con il sinistro proprietario del locale non pare far parte della ‘simulazione’, la teoria che si tratti di un machiavellico esperimento sembra essere suffragata nel finale dalla vista della telecamera di sorveglianza insieme all’apertura del portello e alla luce del sole che illumina i due ‘superstiti’ della missione. Certo, non tutti i nodi vengono sciolti ma anche altre scene secondarie sembrano indicare che si tratti di un esperimento svolto all’insaputa dei partecipanti. Ad esempio segnaliamo la scena (altrimenti inspiegabile) in cui la dottoressa e il pilota, in fuga dagli strani abitanti della cittadina, si nascondono dietro il bancone di un bar e il barista vede le gambe della ragazza che spuntano, ma poi se ne va. Questo dà l’impressione di essere in una simulazione poiché se fossero effettivamente braccati, il barista armato di machete avrebbe probabilmente fatto qualcosa di più. 

 

Dopo 400 giorni di simulazione di missione in fase di completamento, quattro astronauti cominciano a sentire che qualcosa non va…


 

La scoperta

 

La scoperta - poster

Con La scoperta (The Discovery, 2017), produzione indipendente Netflix, siamo su un registro diverso dai due precedenti thriller fantascientifici anche se pure qui non manca una certa aura di mistero. Mentre il cinema di fantascienza odierno delle major è sempre più uno spettacolo ripetitivo infarcito di effetti speciali, irrimediabilmente perso tra supereroi e battaglie stellari, tocca a un network TV on demand rinnovare la ‘materia’ magari andando a recuperare certa fantascienza degli anni ’60 e ’70 con le sue tematiche metafisiche e intimiste che mettono al centro l’uomo. Il regista californiano Charlie McDowell (figlio dell’attore Malcolm McDowell – quello di Arancia Meccanica), alla sua seconda regia, sceglie volutamente un taglio di basso profilo e anti-spettacolare per raccontare una storia dallo spunto iniziale molto ‘forte’ e interessante: la scoperta del titolo è quella che dimostra scientificamente l’esistenza, dopo la morte, dell’al di là, presentato dal suo scopritore come “un nuovo piano dell’esistenza“. Ma non aspettiamoci sviluppi horror paranormali con macabri spiriti di defunti o spettacolari mondi onirici alternativi tipo Inception. Al regista (autore della sceneggiatura insieme a Justin Lader) interessa mostrarci piuttosto le conseguenze dell’epocale scoperta sulla gente comune e soprattutto sui dolenti protagonisti del film; conseguenze catastrofiche che portano un numero crescente di persone a cercare il suicidio per arrivare prima dall’altra ‘parte’, magari perché insoddisfatti o infelici della propria vita terrena. Ma anche quest’aspetto da fantascienza distopica rimane sullo sfondo, infatti il film si svolge su un’isola remota (dove conduce i suoi esperimenti lo scienziato Thomas Harbor  – interpretato da un ancora carismatico Robert Redford – circondato dai suoi ‘adepti’, organizzati come una specie di setta) per focalizzarsi su questioni e drammi familiari e sentimentali (Will, il figlio dello scienziato, è dubbioso sulla moralità delle ricerche del padre e al contempo innamorato di Isla una ragazza aspirante suicida, interpretata da una problematica ma fascinosa Rooney Mara). La scoperta non è un action-thriller e dopo il potente incipit sembra un po’ smarrirsi dietro la descrizione del rapporto sentimentale tra Will e Isla, immerso in atmosfere malinconiche e crepuscolari, enfatizzate da una fotografia fredda e grigia e da un andamento trasognato. E almeno all’inizio non ci viene fatto vedere in cosa consiste questo fantomatico al di là, che spinge le moltitudini al suicidio. E dopo, il film evita di imboccare la via del fantastico surreale o esoterico (per alcuni un difetto) ma rimane rigorosamente (fanta)scientifico (pur senza mostrare tecnologie di aspetto particolarmente avveniristico) escludendo qualsiasi elemento religioso o spirituale. Ma, se riusciamo ad arrivare fino in fondo, saremo ‘ricompensati’ da un finale insolito e sorprendente che darà un senso compiuto anche alla storia romantica di Will e Isla.

Spoiler!

Ci troviamo di fronte a un al di là quasi ‘minimalista’, frutto di una diversa percezione della nostra mente ovvero una sorta di realtà alternativa che ognuno di noi è in grado di creare dopo la morte senza interventi divini esterni. Questa realtà alternativa può essere registrata e visualizzata su dei monitor, e si presenta apparentemente come dei ricordi del defunto. In realtà ci troviamo di fronte a dei ricordi ‘alternativi’ basati sui rimpianti della vita che ogni essere umano si porta dietro e sul desiderio di poter rimediare agli errori commessi durante l’esistenza terrena. Tutto questo porta implicazioni che contemplano i loop temporali e le innumerevoli diramazioni delle realtà parallele. Infatti scopriamo alla fine che il protagonista, il neurologo Will, è già morto quando la storia inizia. Quindi tutto quello a cui assistiamo non è reale, ma si tratta delle infinite diramazioni create dalla mente di Will dopo la morte, che cerca di rivivere nella giusta maniera la sua storia d’amore con la tormentata Isla, tentando di correggere gli errori commessi in vita, apparentemente ‘intrappolato’ in una serie infinita di incontri di ‘riparazione’ con la sua amata.

Probabilmente quest’idea molto incisiva e suggestiva poteva essere sfruttata meglio e il ribaltamento di prospettiva finale arriva un po’ frettolosamente, anche se questo comunque contribuisce a giustificare alcune incongruenze narrative e altri aspetti improbabili della vicenda (improbabile ad esempio che tutti si precipitino a suicidarsi per andare in un al di là, senza che siano note inizialmente le sue caratteristiche o il suo aspetto). Ma rimane comunque un film peculiare per chi apprezza ancora una certa fantascienza indipendente anti-hollywoodiana, dove un approccio intimista e sentimentale convive audacemente con i grandi misteri della vita e della morte, del tempo e dello spazio.

 

 

Un anno dopo che l’esistenza dell’aldilà è stata verificata scientificamente, milioni di persone di ogni parte del mondo hanno posto fine alla propria vita per arrivarci. Un uomo e una donna s’innamorano mentre affrontano il proprio tragico passato e la vera natura della vita dopo la morte…