Il cinema sovietico ha offerto rare incursioni nel genere fantastico, nonostante la letteratura russa abbia creato notevoli capolavori, scritti soprattutto in età romantica. Al folklore slavo si ispirò l’ucraino Nikolai Vasilievich Gogol, con la raccolta Mirgorod (1835). Il suo racconto lungo Viy è stato trasposto in una pellicola omonima nel 1967 da Konstantin Yershov e Georgi Kropachyov.
Le pagine hanno fornito il soggetto per l’opera ora perduta del pioniere Vasily Goncharov (1909), per il cult La maschera del demonio di Mario Bava (1960), per il remake del figlio Lamberto (1989), e la recente rivisitazione sovietica Viy (2014). Questi film, sebbene pregevoli o almeno interessanti, si distaccano profondamente da Gogol, sia negli intenti del racconto, sia nel suo sviluppo, sia nel tono della narrazione. Lo scrittore ha recuperato una leggenda popolare e l’ha rivisitata seguendo l’esempio della narrativa fantastica e favolistica mitteleuropea. Il racconto, contraddistinto da una dose di patriottica ironia, vuole inscenare le reazioni dell’animo umano quando diviene preda di paure primordiali.
Khoma Brutus, il protagonista, è un seminarista giovane e godereccio, un uomo esperto in filosofia e amante dei piaceri carnali. Probabilmente è un orfano finito in seminario spinto più dalla fame e dall’ambizione che dalla fede; la sua cultura, e il carattere concreto e spensierato dovrebbero renderlo scettico nei confronti delle superstizioni contadine. Le drammatiche vicissitudini invece lo portano a confrontarsi con entità spaventose. Smarritosi in piena notte nell’inospitale campagna, trova rifugio da un’orribile vecchietta; la nonnina è una strega e lo costringe a volare su una scopa. Quando atterrano, Khoma uccide l’essere, e questi si trasforma in una bellissima ragazza. Tornato al monastero, il filosofo viene raggiunto dai servi di un ricco signore, e viene condotto al loro villaggio per esaudire l’ultima volontà della figlia del nobiluomo. La ragazza è stata trovata in un campo, agonizzante, e ha richiesto che proprio Khoma, per tre notti, reciti le preghiere per la sua anima. Il filosofo si trova costretto ad assolvere il compito, e presto si rende conto della gravità della situazione: il corpo disteso nella bara è quello visto nella notte fatale ed è una pànnočka, un essere con caratteristiche di strega e di vampiro. La creatura si anima nel buio della chiesetta di legno, scatenando potenze oscure… La ragione e la cultura sono destinate a soccombere davanti alle forze dell’oltretomba.
Konstantin Yershov e Georgi Kropachyov seguono la narrazione letteraria apportando minimi adattamenti; nel primo tempo ogni elemento sovrannaturale si limita a quanto avviene nella palude. La sceneggiatura impiega una buona mezz’ora per costruire il clima claustrofobico necessario partendo da situazioni e dialoghi che sembrano parte della vita di ogni giorno. Fino alla prima notte di veglia i timori del giovane sembrano avere un’origine terrena: le imposizioni dei sacerdoti, l’ignoranza dei cosacchi… anche la brutta avventura nella palude potrebbe sembrare l’incubo dovuto a una bevuta di troppo. L’inesperto Khoma viene costretto a svolgere il rito dai suoi superiori al monastero, allettato con la promessa di una grossa ricompensa nel villaggio, infine obbligato dagli stessi cosacchi. Mano a mano che il cerchio si chiude attorno al povero seminarista, i dettagli macabri si accumulano in un continuo crescendo, fino al culmine della terza notte di veglia. L’ultimo quarto d’ora di proiezione ripaga ampiamente la pazienza degli spettatori, con la comparsa del Vij attorniato dalla sua corte di creature mostruose che sbucano dalle pareti immerse nel buio.
Gli effetti speciali, per quanto semplici, mantengono ancor oggi una notevole potenza espressiva, capace di rivaleggiare ( e talvolta superare) i prodigi della grafica digitale. Talvolta vengono usati fondali posticci e i trucchi sono artigianali, eppure niente è lasciato al caso o inserito per meravigliare lo spettatore. Stavolta tutti i particolari sono davvero importanti, e i movimenti di macchina rappresentano un piccolo saggio di bravura. Minimizzano la povertà degli effetti speciali, e sorprendono lo spettatore con soluzioni visive originali, enfatizzate dai cromatismi accesi, oppure tetri.
Tanta cura formale ha fatto sì che Viy sia una delle rare pellicole fantastiche invecchiate bene: gran parte dei film di genere mostra impietosamente la sua età. Gli anni sono passati anche su Viy, tuttavia il soggetto fa leva su temi ancora oggi attuali ed universali, e ha dalla sua la forte componente folcloristica. Non ci sono i chiassosi mostri del cinema americano pronti a entrare in scena dopo pochi minuti di proiezione, oppure orrori creati per dare corpo a proteste e a timori suscitati dall’attualità giornalistica, e neppure si vedono realizzazioni a basso costo o scene esplicite esibite con disinvoltura come in alcuni film della Hammer. C’è invece un mondo tutto da riscoprire, quello delle leggende slave, e c’è una sensibilità tutta diversa da quella occidentale per raccontarlo.
Le creature del folclore ucraino vengono rappresentate secondo i criteri estetici tipici della cultura dell’Est, senza scadere in sequenze grandguignolesche e senza cedere alla tentazione di rendere ogni immagine immediatamente comprensibile per una platea globalizzata. La pànnočka che ritorna ad essere fanciulla lungo le rive del fiume richiama lo spettro della rusalka, fantasma o spirito delle acque che infesta le paludi. La chiesetta è distante dalle abitazioni e sovrasta il villaggio come se fosse un castello; il profilo della collina viene ad assomigliare a quello reso popolare dalla narrativa gotica. Nella cappella i primi piani indugiano sulle icone dai colori cupi, sui volti di Cristo e dei santi dalle espressioni accigliate, sugli arredi liturgici impolverati. L’aspetto dismesso del luogo suggerisce come il culto sia poco praticato dai contadini e dai Cosacchi, che preferiscono credere alle superstizioni rurali sopravvissute al cristianesimo. La bellissima pànnočka volteggia volando nella sua bara e ha il sapore di una creatura fantasy; anche il Viy e la sua corte di creature sono lontani dagli stereotipi dell’horror e richiamano piuttosto le creature dei racconti popolari. Concretizzano le paure radicate nell’immaginario collettivo dei popoli dell’Europa dell’Est, e visivamente sono ispirate alle illustrazioni delle fiabe mitteleuropee e slave dell’Ottocento. Dal passato e dalla tradizione vengono anche le partiture più suggestive della colonna sonora: ninne nanne, i canti tradizionali ortodossi, quelli dei Cosacchi…
Rimarranno delusi quanto si attendevano erotismo facile oppure scene di esplicita violenza: le possibili allusioni necrofile sono riassunte in un gioco di sguardi tra la giovane e Khoma, mentre il montaggio lascia abilmente immaginare allo spettatore i particolari più crudi, senza edulcorare i fatti. Tutta la vicenda si basa sull’alternanza tra la luce e l’ombra, tra la razionalità del seminarista e il terrore primordiale scatenato dalle entità ultraterrene. La vendetta della pànnočka diviene piuttosto la rivincita dell’a-razionale sulla concretezza, e si consuma in un crescendo non privo di una grottesca ironia. Khoma si batte contro le potenze oscure all’interno di un cerchio magico tracciato con un gessetto; brandisce uno stivale come arma e si presenta allo scontro finale evidentemente alticcio.
L’umorismo non dissacra gli eventi, e rispetta le pagine. La narrazione di Gogol include parentesi farsesche, con personaggi quasi caricaturali e situazioni grottesche. Anche nel film i momenti comici legano bene con una vicenda altrimenti drammatica: Khoma è un disgraziato chiamato a confrontarsi con un nemico più grande di lui, senza disporre dei mezzi necessari per difendersi. E’ vittima della gerarchia ecclesiastica, dell’avidità degli uomini attirati dall’oro, ed è vittima dello stesso nobiluomo, che non ha saputo o non ha voluto vedere la natura perversa della propria figlia. La vittoria finale sulle forze oscure è pagata a caro prezzo e oltretutto, i paesani danno poco peso al sacrificio del povero filosofo.
Un epilogo tanto amaro probabilmente sarebbe spiaciuto al pubblico occidentale, abituato a happy ending rassicuranti o a drammi annunciati a chiare lettere fin dal primo fotogramma. In patria Viy fu un grande successo, tuttavia proprio le sue caratteristiche migliori lo hanno reso una pellicola ‘difficile’ per il mercato europeo e americano. E’ un film di difficile reperibilità e tutto da riscoprire, a patto di volersi accostare ad un mondo tanto lontano senza pregiudizi.
Regia: Georgij Kropačëv, Konstantin Eršov
Anno: 1967
Produzione: URSS – Mosfil’m – Durata 77 min
Sceneggiatura: Aleksandr Ptuško, Georgij Kropačëv, Konstantin Eršov
Fotografia: Viktor Piščalnikov, Fëdor Provorov
Musiche: Karėn Chačaturjan
Interpreti: Leonid Kuravlyov, Natalya Varley, Aleksey Glazyrin
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