Proseguiamo con la seconda parte della nostra panoramica sui migliori film thriller-horror degli ultimi due decenni che si sono distinti per suspense e colpi di scena. (Vai a Parte 1°)

 

 

 

Prisoners (2013), diretto dal talentuoso regista Denis Villeneuve (prima di dedicarsi ai kolossal di fantascienza), è un thriller psicologico cupo e avvincente che affronta il tema straziante della scomparsa di due bambini e il caos emotivo che ne deriva. Il film offre uno sguardo crudo sulla disperazione umana e sfida gli spettatori con una trama intricata, caratterizzata da colpi di scena inaspettati. Come nel thriller israeliano Big Bad Wolves (2014), il protagonista è alla ricerca disperata della figlia scomparsa ed è disposto a qualsiasi cosa pur di trovarla: anche a infrangere la legge, ovvero rapendo e torturando un sospettato la cui colpevolezza è tutt’altro che sicura agli occhi dello spettatore.

La storia si sviluppa quando due bambini scompaiono durante il Giorno del Ringraziamento, lasciando le loro famiglie – interpretate da Hugh Jackman, Maria Bello, Terrence Howard e Viola Davis – nel caos emotivo. La tensione cresce quando il detective Loki, interpretato da Jake Gyllenhaal, assume il caso e le indagini portano a sospetti su un uomo apparentemente innocuo, interpretato da Paul Dano. La forza di Prisoners risiede nella sua capacità di creare un’atmosfera opprimente e intensa, accentuata dalle forti performance del cast. Hugh Jackman offre una delle sue migliori interpretazioni come Keller Dover, un padre devastato dalla scomparsa della figlia, portando avanti un mix impressionante di vulnerabilità e rabbia. Jake Gyllenhaal, nel ruolo del detective Loki, fornisce una performance altrettanto straordinaria, catturando la complessità del suo personaggio ossessionato dalla ricerca della verità. I personaggi sono complessi e ambigui e non sappiamo sempre da che parte stiano, e questo crea una costante incertezza riguardo alle loro intenzioni e azioni. Il conflitto tra la certezza del padre e il dubbio del detective Loki crea una tensione palpabile. Il film ci regala alcune scene davvero mozzafiato. Ad esempio, c’è un inseguimento attraverso i giardini di notte dopo una veglia per le ragazze scomparse. La telecamera ci tiene sulle spine mentre seguiamo Loki nel buio, alla ricerca di indizi e risposte.

La regia di Villeneuve è magistrale e il direttore della fotografia Roger Deakins, noto per il suo lavoro con i fratelli Coen, ha creato immagini suggestive utilizzando una fotografia priva di colori accesi che si adatta perfettamente all’atmosfera angosciante del film. La colonna sonora di Jóhann Jóhannsson contribuisce a intensificare ulteriormente l’emozione e la tensione. La trama di Prisoners è ricca di colpi di scena e misteri intricati (forse quasi troppo), mantenendo gli spettatori incollati allo schermo fino all’ultimo minuto come ogni buon thriller dovrebbe fare. Sicuramente bisogna prestare molta attenzione a quanto accade sullo schermo altrimenti alcuni accadimenti apparentemente inesplicabili potrebbero rimanere oscuri o poco comprensibili. Il film si sforza di esplorare temi complessi come la giustizia personale, la fede e la moralità, senza fornire risposte facili o confortanti. Il finale al cardiopalma ci offrirà un colpevole inaspettato e un salvataggio in extremis.
In conclusione ci troviamo di fronte uno dei film più memorabili del genere thriller degli ultimi anni.

 

Kill List (2011)

 

Kill List (2011), diretto da Ben Wheatley, è un thriller psicologico britannico che si distingue per la sua tensione implacabile e il suo approccio inquietante e peculiare al genere. Il film offre una miscela unica di suspense, mistero e violenza mescolando abilmente il crime-thriller di marca ‘british‘ con il folklore horror. Tra i film thriller di questa rassegna, sicuramente Kill List occupa il podio per originalità e stranezza. La trama segue Jay (interpretato da Neil Maskell), un ex soldato britannico in difficoltà economiche che, dopo un periodo di inattività, viene reclutato insieme al suo amico Gal (interpretato da Michael Smiley) per compiere una serie di omicidi per conto di misteriosi committenti. Ciò che inizia come un’apparentemente ‘semplice’ missione di assassinio si trasforma presto in qualcosa di più oscuro e complesso, portando Jay sempre più vicino al suo punto di rottura.

La forza di Kill List risiede nella sua capacità di mantenere una sensazione costante di tensione, alimentata da un senso di imminente pericolo e dal crescente mistero che circonda le missioni di Jay e Gal. Il film è abilmente strutturato, svelando lentamente gli elementi di una cospirazione più ampia ma dai contorni indefiniti e lasciando che la suspense cresca in modo graduale ma inarrestabile. Le performance del cast sono notevoli, con Neil Maskell che offre una resa convincente del suo personaggio tormentato. La chimica tra Maskell e Michael Smiley aggiunge un tocco di realismo e umanità ai loro personaggi, complicando ulteriormente la trama e le dinamiche in gioco. La loro amicizia è tesa e complicata: Jay è depresso e ansioso, mentre Gal è più rilassato e umoristico. Questa dinamica contribuisce ad accrescere la tensione emotiva del film. Si passa da situazioni di realismo quotidiano (l’ex militare Jay con i suoi problemi familiari) ad altre più enigmatiche e surreali che sembrano impregnate di criptici simbolismi e inesplicabili allegorie. Infatti Kill List è ricco di simbolismo e allusioni. Ad esempio, gli oggetti ritualistici, i numeri e le parole misteriose che compaiono nel film potrebbero rappresentare qualcosa di più profondo. Senza rivelare troppo della trama intricata, Kill List cambia ‘genere’ in corsa mutando da thriller realistico urbano ad horror sulle sette dai risvolti esoterici, pur senza ricorrere a elementi dichiaratamente soprannaturali o mostri vari.
In breve la trama è deliberatamente ambigua e misteriosa, e parte della sua forza risiede proprio nell’assenza di una spiegazione razionale completa. Questa cosa non piacerà a tutti ma è parte integrante dell’esperienza cinematografica.

 

Martyrs (2008)

 

Martyrs (2008), diretto da Pascal Laugier, è un film horror francese che ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo del cinema estremo. Tra i film presentati nella nostra rassegna in due parti è sicuramente il più ‘crudele’ e sconvolgente. Però Pascal Laugier (di cui ricordiamo anche il notevole La casa delle bambole – Ghostland, 2018) ha voluto prendere le distanze dal più commerciale genere ‘torture porn‘, ben rappresentato da Hostel (2005) di Eli Roth, con tutti i suoi sequel ed epigoni. Le nefandezze messe in scena dal torture porn, per quanto sanguinarie e violente, sono fini a se stesse e quindi ‘innocue’.
Con Martyrs siamo su un altro livello: si tratta di un’opera estremamente intensa e visceralmente cruda che sfida gli spettatori a proseguire la visione. Quelli che avranno lo stomaco per andare fino in fondo saranno ricompensati comunque da inaspettati cambi di prospettiva narrativi e colpi di scena, come in ogni valido thriller che si rispetti.

La trama ruota attorno a una giovane donna di nome Lucie, interpretata da Jessie Pham, che è stata vittima di rapimento e tortura da bambina. Dopo anni di abusi, Lucie fugge dalla sua prigione e viene presa in custodia. Tuttavia, non rivela mai cosa le sia successo e i suoi torturatori non vengono mai trovati.  Il film si divide in due atti distinti. Nel primo atto, Lucie, anni dopo la sua fuga, cerca vendetta nei confronti di una famiglia, apparentemente normale, che potrebbe essere stata coinvolta nel suo rapimento. Nel secondo atto, la storia prende una piega sorprendente e ancora più disturbante. Come in Kill List gli ‘orizzonti’ del Male sembrano allargarsi verso territori filosofici e metafisici. Senza rivelare troppo, possiamo dire che il film esplora i temi della sofferenza, della vendetta e soprattutto del raggiungimento dell’estasi tramite il martirio del corpo. La regia è cruda e realistica, spesso mettendo gli spettatori di fronte a immagini disturbanti e viscerali di una crudeltà enigmatica e incomprensibile, anche se le scene di violenza e tortura sono rappresentate in maniera quasi asettica e distaccata.

Le performance degli attori sono di alto livello, con Jessie Pham e Morjana Alaoui (nella parte di Anna, l’altra ragazza martirizzata) straordinariamente intense. L’eredità di Martyrs è quella di aver spinto i confini del cinema estremo oltre le banalità del torture porn più commerciale e di aver lasciato un’impressione duratura su chiunque lo abbia visto. Coloro che sono disposti ad affrontare un viaggio cinematografico estremo e profondo potrebbero trovarlo affascinante, ma è importante essere consapevoli della sua natura cruda e delle tematiche disturbanti e provocatorie che affronta.

 

The Backwoods: Prigionieri del bosco (2006)

 

The Backwoods: Prigionieri del bosco (2006) noto anche con il titolo originale “Bosque de sombras“, è un thriller psicologico ricco di atmosfera, diretto dall’esordiente Koldo Serra e interpretato da un cast di talento, tra cui Gary Oldman, Virginie Ledoyen e Paddy Considine. L’ambientazione boschiva e rurale del film è uno dei suoi punti di forza. La storia si svolge nel 1978 in una regione remota del Paesi Baschi, in una fattoria isolata. Due coppie si ritrovano in questo luogo per una vacanza fuori dal comune: Norman e Lucy, e il loro ex capo Paul (interpretato da Gary Oldman) e sua moglie spagnola Isabel. La tensione aumenta quando gli uomini trovano una ragazza selvaggia, Nerea, nei boschi e cercano di portarla in salvo, essendo apparentemente tenuta segregata in un capanno per motivi misteriosi. Ma gli abitanti del luogo, poco comunicativi e non troppo amichevoli, potrebbero aver qualcosa da ridire…

La fotografia e la produzione del film sono di buon livello, ma ciò che rende The Backwoods davvero interessante è la performance sottile di Gary Oldman. La sua presenza sullo schermo è sempre magnetica, e qui non fa eccezione. Il resto del cast contribuisce a creare momenti tesi e carichi di suspense, grazie alle loro diverse etnie (inglesi, spagnoli, baschi) che portano a reazioni differenti in una situazione stressante e conflittuale. Il conflitto tra mondo borghese/urbano e mondo selvaggio/rurale rimanda ai classici del genere come Cane di paglia di Sam Peckinpah e Un tranquillo weekend di paura di John Boorman. Lo scenario isolato e minaccioso, fornisce uno sguardo claustrofobico sulla fragilità umana e sulle conseguenze dell’isolamento interiore. L’ambiguità delle relazioni tra i vari personaggi (sia i locali che i turisti), l’andamento a volte compassato e a ‘basso profilo’ di certe scene, il mistero della bambina selvaggia dalle mani deformi, danno un effetto straniante a una pellicola dal finale aperto e spiazzante con un omaggio anche ai western di Sergio Leone.

Nonostante alcuni aspetti derivativi il debutto di Koldo Serra dimostra già una buona padronanza del mezzo cinematografico, fornendoci soluzioni narrative interessanti e uno stile registico piuttosto raffinato che come nei film precedentemente presi in esame, contribuiscono a creare una situazione di suspense avvolgente e costante, pur discostandosi dai soliti survival-horror made in USA.