La recensione dell’ultima stagione di The Man in the High Castle
Attenzione spoiler!
La quarta e ultima stagione di The Man in the High Castle chiude bene (ma non benissimo) la serie Amazon e fornisce un finale anche al romanzo di fantascienza ucronica di Philip K. Dick che non aveva una vera e propria conclusione. Ovviamente la serie TV ha dovuto ampliare l’universo ideato da Dick, sia sotto l’aspetto storico-politico che quello inerente ai personaggi e ai loro dilemmi personali, dove, tra battaglie, intrighi e tradimenti, portano questa ultima stagione a un finale ricco di pathos ed emotivamente coinvolgente. Su tutti primeggia ancora la figura del comandante nazista americano John Smith (Rufus Sewell), dilaniato tra la sua brama di potere e la necessità di salvaguardare la sua famiglia, già duramente provata dalla morte del figlio Tom, volontariamente suicidatosi in nome della eugenetica nazista. Ma il suo disperato tentativo di rimediare alla tragedia, rapendo la versione in salute e felice di suo figlio che vive nel nostro mondo, reso accessibile dal portale dimensionale costruito dai nazisti, si scontra con l’opposizione della moglie Helen Smith (Chelah Horsdal), che ormai non crede più nella società edificata sotto il dominio del Reich. Juliana Crain (Alexa Davalos), dopo aver incontrato nel nostro mondo la versione ‘buona’ di John Smith (ovvero un tranquillo commesso viaggiatore), rimane il ‘simbolo’ e membro principale della resistenza e insieme a Wyatt Price (Jason O’Mara), organizza un attentato nei confronti del comandante John Smith, grazie alle informazioni fornite dalla pentita moglie Helen. Ma i guai e le preoccupazioni per lo Smith nazista non finiscono qua. Infatti, ironia della sorte, nonostante la morte dello Smith ‘buono’ per mano di un agente nazista, lo Smith nazista, dopo essersi temporaneamente fatto passare per il suo doppio per avvicinare il figlio, si rende conto che il giovane, ligio al dovere e patriottico come il suo omologo defunto, vuole arruolarsi per il Vietnam. Sono questi particolari che rendono The Man in the High Castle una serie riuscita e accattivante ma che sa anche far riflettere. Hanno un approfondimento e uno sviluppo altamente drammatico anche le vicende dei personaggi che vivono sotto il dominio Giapponese del Pacifico, ovvero l’Ispettore capo Takashi Kido (Joel de la Fuente) e il mercante d’arte Robert Childan (Brennan Brown). L’inflessibile Kido, dovrà salvare il figlio, rimasto traumatizzato dopo l’esperienza bellica in Cina, dalle mani della Yakuza e l’antiquario Childan, ammiratore della cultura nipponica, avrà una problematica relazione amorosa con una donna giapponese proprio quando scoppia la rivolta degli americani contro l’oppressore.
Però va detto che in questa ultima stagione, sotto la guida del nuovo showrunner Eric Overmyer si è deciso di mettere molta carne al fuoco (forse troppa), con la conseguenza di avere un finale molto compresso e sbrigativo nel chiudere le varie storylines. Nella quarta stagione, quasi come un tardivo Deus ex machina, fanno la loro comparsa i ribelli partigiani afroamericani, dal roboante nome di “Black Communist Rebellion”, (non sappiamo se in questo mondo alternativo è mai avvenuto il patto Hitler-Stalin del 1939) che con una serie di attentati mirati e spettacolari riescono a mettere in crisi e a far ritirare precipitosamente gli occupanti giapponesi. Eroici e decisi ad evitare la soluzione finale che i nazi hanno in serbo per loro, i ‘comunisti neri’ guidati da una donna, nonostante le vessazioni subite, sono più giusti e illuminati della loro controparte ‘bianca’, infatti si oppongono all’esecuzione sommaria dell’ispettore Kido caduto loro prigioniero, per il quale chiedono un processo regolare. Ma, polemicamente, quando organizzano la difesa di San Francisco insieme ai ‘bianchi’ contro l’offensiva del Reich, rifiutano la bandiera americana in cui non si riconoscono.
Ma al di là delle ormai obbligatorie concessioni ai diktat ‘politically correct’, l’aspetto meno convincente del finale di stagione è che non chiarisce e non sviluppa adeguatamente gli elementi più propriamente (fanta)scientifici, difetto che temevamo potesse verificarsi, come scritto nelle recensioni delle passate stagioni. Arrivati di corsa al gran finale pirotecnico, non è ancora ben chiaro come certi individui riescano a viaggiare tra i mondi paralleli senza l’ausilio di ‘portali’ o altri mezzi tecnologici. Diventa un mero espediente, o meglio una scorciatoia per far andare avanti la storia e fare spostare alcuni personaggi da una parte all’altra senza dare spiegazioni di sorta. A questo metodo di spostamento che potremmo definire “mentale/spirituale/esoterico” si contrappone il concreto portale dimensionale costruito dai nazisti, che, dopo crudeli sperimentazioni, hanno selezionato una serie di agenti in grado di infiltrarsi dall’altra parte (ovvero il nostro mondo). Naturalmente il Reich guidato dallo spietato Himmler ambisce ad estendere il proprio dominio sul multiverso composto da una moltitudine di mondi possibili, a cominciare dal nostro. Ma questo grandioso e suggestivo concetto, che nasce dalle teorizzazioni della fisica quantistica, rimane colpevolmente sullo sfondo della vicenda, ma evidentemente la necessità di chiudere la serie alla quarta stagione per fare spazio ad altri progetti da parte di Amazon, ha prevalso su eventuali ulteriori sviluppi di The Man in the High Castle. Fin dall’inizio si è preferito dare spazio agli aspetti fantastorici (o fantapolitici) con il loro forte messaggio di denuncia, e affidare gli affascinanti ‘meccanismi’ della fisica quantistica a un confronto piuttosto frettoloso tra John Smith e Hawthorne Abendsen (l’uomo nell’alto castello) che, costretto a collaborare con i nazisti, illustra al suo aguzzino un modello in scala del multiverso con una miriade di mondi collegati tra loro secondo la legge dei ‘quanti’. Forse questo ci potrebbe bastare ma la scena finale, ambigua e di oscura interpretazione, ci dà un’altra piccola delusione, nonostante l’indubbio valore complessivo della serie. Infatti nella suddetta scena finale vediamo l’uomo nell’alto castello, Abendsen, attraversare il portale (forse alla ricerca di un’altra versione della moglie morta suicida?) mentre una folla anonima di persone con il volto in ombra, provenienti dal nostro mondo, fa il percorso inverso. Evidentemente la ‘regola’ che abbiamo visto nelle puntate precedenti (secondo cui si può passare da un mondo all’altro senza rimanere uccisi solo se il proprio doppio è deceduto per qualche motivo), non è più valida. Uno degli sceneggiatori, David Scarpa, ha ammesso che si è voluta lasciare libertà di interpretazione al singolo spettatore sullo strano finale, che probabilmente vuole simboleggiare una fusione tra i due mondi dove le persone possono muoversi liberamente ora che i ‘cattivi’ sono stati sbaragliati. La cosa non ci convince troppo e dobbiamo sperare nell’esistenza di un mondo parallelo dove The Man in the High Castle ha una quinta stagione.