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Da dove vengono? Perché sono qui? Come possiamo comunicare con loro? Sono queste le domande che vengono poste dal nuovo film di fantascienza Arrival che tratta il sempre affascinante tema del ‘primo contatto’ con un’avanzata forma di vita extraterrestre.

 

 

 

 

Presentato con successo alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Arrival (2016) segna l’atteso ritorno sugli schermi della fantascienza d’autore, quella che fa riflettere, che pone domande importanti, che ci affascina e ci spaventa (talvolta). Senza voler fare paragoni inopportuni con opere considerate inarrivabili, ci troviamo dalle parti di 2001: odissea nello spazio, Solaris, Incontri ravvicinati del terzo tipo, fino ad arrivare al recente Interstellar, tutte pellicole che riescono a fondere l’aspetto fantascientifico più grandioso e immaginifico con quello umano più intimista e introspettivo.
La migliore fantascienza cinematografica (lontana dalle logiche commerciali dei ‘blockbuster’) di solito è quella che trae ispirazione dalle opere letterarie di questo genere che, a differenza dei best-seller fantasy e horror, viene considerato a tutt’oggi abbastanza di nicchia sulla carta stampata. Arrival è basato sul racconto del 1998 “Storia della tua vita“, incluso nell’antologia di racconti Storie della tua vita (Stories of Your Life and Others, 2002) di Ted Chiang. Va dato merito al regista canadese Denis Villeneuve, insieme allo sceneggiatore Eric Heisserer, di aver fatto un ottimo adattamento del racconto di Chiang, tematicamente affascinante e sofisticato, ma non così adatto per una trasposizione sullo schermo per via degli argomenti complessi che tratta soprattutto a livello scientifico. Villeneuve (di cui deve uscire nei prossimi mesi l’ambizioso sequel di Blade Runner) sfronda abilmente il film dagli aspetti più ostici del racconto, conservandone tuttavia la struttura fondamentale, quella di una vicenda che scorre su due piani (temporali) diversi, uno ‘pubblico’ e spettacolare sul primo contatto con una razza aliena intelligente, l’altro ‘intimo’ e drammatico sulla vita privata della protagonista. Arrival prende il via come un thriller fantascientifico, ricco di mistero e tensione, dove la paura ‘lovecraftiana’ dell’ignoto prevale sugli sgomenti umani che non sanno comprendere le motivazioni che hanno portato sulla terra gli enigmatici alieni dotati di sette arti (Eptapodi), giunti a bordo di monolitiche e inquietanti astronavi nere. Poi, fedelmente al racconto di Ted Chiang, il film non si rivela essere la solita catastrofica e orripilante invasione aliena tanto cara al cinema di fantascienza dai tempi della Guerra dei mondi (1953) in poi, ma piuttosto un’incalzante e suggestiva corsa contro il tempo per cercare di capire e comunicare con una forma di vita intelligente così diversa dalla nostra da risultare incomprensibile e minacciosa suo malgrado. Già in precedenza varie pellicole sci-fi ci avevano raccontato il problematico primo contatto con razze aliene non necessariamente ostili ma dove l’incomprensione o il rapporto conflittuale sono sempre in agguato: l’inascoltato messaggero di pace di Ultimatum alla Terra (1951), gli involontari naufraghi di Destinazione… Terra! (1953) o in tempi più recenti le illuminate intelligenze extraterrestri di Contact (1997) e gli evoluti alieni di aspetto ‘diabolico’ della miniserie TV Childhood’s End del 2015 (tratta dal classico romanzo di Arthur Clarke ‘Le guide del tramonto‘) costituiscono dei significativi esempi sul tema del primo contatto con una razza aliena.
Ma Arrival è il primo film di fantascienza che affronta il tema della comunicazione con un’altra specie senziente sotto l’aspetto del linguaggio con un approccio rigorosamente scientifico. Infatti la protagonista della storia è una brillante e stimata linguista (interpretata da una convincente e intensa Amy Adams) che viene reclutata dall’esercito degli Stati Uniti per aiutarli a tradurre e comprendere i messaggi e le intenzioni degli alieni appena atterrati in una zona disabitata del Montana, con delle enormi astronavi sospese a mezz’aria, in barba a qualsiasi legge di gravità.

Arrival

Il panico serpeggia nel mondo e i (soliti) cattivoni cinesi e russi vogliono usare le maniere forti (in verità con improbabile audacia) per scoprire le intenzioni e le segrete tecnologie degli alieni, apparentemente non aggressivi ma di aspetto poco rassicurante, di certo molto diversi dai saggi umanoidi con frangetta e orecchie a punta a cui ci ha abituato la fantascienza cinematografica e televisiva più popolare. Quindi toccherà alla coraggiosa scienziata decifrare il linguaggio degli imponenti Eptapodi e cercare di stabilire un rapporto amichevole e costruttivo, prima che prendano il sopravvento le incombenti paranoie dei militari guerrafondai. Fin qui nulla di nuovo ma il regista sa tenere alta l’attenzione dello spettatore, semplificando ma senza banalizzare il brillante racconto di Ted Chiang, mettendo al centro la sfida intellettuale ed emotiva posta dalla comunicazione con gli alieni. Villeneuve si rivela assai abile nel dosare suspense ed effetti speciali ma poi, seguendo la traccia del racconto, la vicenda degli Eptapodi (che hanno una percezione del mondo e del tempo molto diversa dalla nostra) si intreccia imprevedibilmente con quella più intima e dolorosa della protagonista. Forse la cosa farà storcere il naso a molti spettatori che, viste le premesse avvincenti, speravano in un finale d’azione, magari più esplicativo sulle origini e sulle motivazioni dei visitatori alieni. Invece il regista ci sorprende con una conclusione aperta che ci rende partecipi del destino futuro della protagonista ma non fa molta luce sulle provenienza e sugli scopi degli alieni (ma su questo il racconto è ancor più lapidario). Il film corre il rischio di scivolare verso il lacrimevole e il melodrammatico ma il colpo di scena finale (o meglio cambio di prospettiva) ci fa sorvolare su qualche concessione di sapore ‘new age’ che ha fatto tirare in ballo ad alcuni critici i film ‘filosofici’ di Terence Malick.

Spoiler!

La scrittura degli alieni Eptapodi è circolare, e rispecchia il loro modo di pensare e il loro rapporto con il tempo che per noi invece è lineare e sequenziale. La comprensione della scrittura aliena, composta da strani logogrammi, permette alla protagonista di avere ‘visioni’ sulla propria vita futura. Ma Villeneuve ci induce a credere di stare assistendo ai ricordi passati della protagonista, quando invece si tratta della sua vita futura e di quella di sua figlia.

Arrival

 

Storia della tua vita: le differenze con il racconto

E’ interessante, anche per capire e apprezzare meglio Arrival, mettere in evidenza le differenze che intercorrono tra il racconto e la pellicola. “Storia della tua vita” offre spunti stimolanti e affascinanti ma ha un taglio volutamente anti-spettacolare, è piuttosto statico e in fondo non succede molto dal punto di vista dell’azione vera e propria. Tocca al regista suscitare pathos e tensione aggiungendo lo scenario internazionale in fibrillazione per gli inattesi visitatori dallo spazio, l’incontro ravvicinato ‘faccia a faccia’ della linguista con i terrorizzanti Eptapodi, i militari fuori controllo che piazzeranno una bomba nell’astronave. Nel racconto, forse più realisticamente e prudentemente, gli alieni tengono nascoste le astronavi in orbita e comunicano a distanza con gli umani tramite avanzati sistemi video simili a ‘specchi’. Nel film, dopo una prima fase dominata dalla paura, la linguista Louise Banks instaura un rapporto piuttosto ‘personale’ con i due alieni soprannominati Tom e Jerry e si accenna vagamente ad una futuro aiuto da parte dell’umanità nei confronti degli Eptapodi; nulla di tutto questo invece accade nel racconto dove la coppia di Eptapodi chiamati Svolazzo e Lampone rimane distaccata ed enigmatica, fino all’improvvisa partenza senza dare spiegazioni di sorta.
Non capimmo mai perché gli Eptapodi fossero partiti, non più di quanto capissimo cosa li aveva portati qui, o perché si fossero comportati come avevano fatto… Il comportamento degli Eptapodi era presumibilmente spiegabile da un punto di vista sequenziale, ma questa spiegazione non la scoprimmo mai.
La vicenda privata della protagonista con i suoi ‘ricordi futuri’ rimane essenzialmente la stessa ma viene rappresentata ovviamente in modalità differenti tra cinema e pagina scritta. Nel racconto sono meno enfatizzati alcuni aspetti melodrammatici e maggiormente approfonditi quelli più scientifici che concernono la linguistica e la fisica.
Avendo dovuto ampliare scenario e intreccio rispetto al racconto, il film si espone inevitabilmente a qualche incongruenza e ‘buco’: risulta improbabile, ad esempio, che un linguista conosca (quasi) tutte le lingue del mondo come invece sembra dal film; se gli alieni conoscono il futuro, perché non evitano alcuni spiacevoli incidenti che accadono nella vicenda? Inoltre quale madre, venendo a conoscenza di un futuro non proprio roseo riguardo la propria prole, farebbe lo stesso certe scelte? Su quest’ultimo punto forse ci può fornire una risposta (dubbiosa ma fatalista) il racconto: “Fin dal principio conoscevo la mia destinazione, e scelgo la mia strada di conseguenza. Ma sto andando verso un’immensa gioia, o verso un immenso dolore? Raggiungerò un minimo o un massimo?
Come abbiamo già potuto apprezzare nel drammatico thriller Prisoners, Denis Villeneuve si conferma un regista che si sa muovere tra i diversi generi con disinvoltura e che sa costruire un crescendo narrativo avvincente suscitando emozioni, cioè quello che in sostanza si chiede al buon cinema.

Anno: 2016
Regia: Denis Villeneuve
Produzione: USA – Warner Bros. –  Durata: 116 Min
Sceneggiatura: Eric Heisserer
Fotografia: Bradford Young
Musiche: Jóhann Jóhannsson
Cast: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Tzi Ma, Mark O’Brien


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