In un futuro prossimo, che sembra un passato alternativo, è ambientata Gamma (1975), la miniserie TV RAI di genere fantascientifico…
Il genere fantastico negli sceneggiati RAI
Nel corso degli anni Settanta la RAI realizzò svariati sceneggiati, alcuni ispirati a celebri classici della letteratura, altri basati su soggetti originali. I mezzi a disposizione degli autori erano progrediti fino a ridurre la distanza che nel decennio precedente aveva separato le produzioni televisive da quanto si vedeva al cinema, anche nelle pellicole minori. il montaggio stavolta faceva la differenza: i lunghi piani sequenza obbligati dall’uso delle telecamere fisse male si conciliavano con l’esigenza di narrare vicende di azione. Pur senza poter ancora indurre il ritmo del cinema contemporaneo, finalmente era possibile affrontare soggetti polizieschi, gialli, mistery, ed anche la tanto temuta fantascienza. La RAI si rivolgeva al grosso pubblico e gli autori erano consapevoli della cattiva reputazione attribuita al fantastico e in particolare alle narrazioni di un ipotetico futuro, complice un sistema scolastico che faceva dell’appartenenza ad alcuni generi un criterio di preferenza. Il desiderio di innovazione era costretto a convivere con i troppi pregiudizi. Di conseguenza il fantastico dovette entrare nei palinsesti quasi come un clandestino, contrabbandato insieme a trame più collaudate, quelle dei classici di autori del mistero (trasposizioni di Edgar Allan Poe, di Hoffman,…) del poliziesco (La traccia verde), della biografia (E.S.P.), della spy-story (Il segno del comando, L’amaro caso della Baronessa di Carini, Ritratto di donna velata…).
Gamma, la via italiana alla fantascienza televisiva
C’era, in tutte queste miniserie, una sola idea fantastica calata in un contesto tradizionale: ed è quanto propone Gamma, diretto da Salvatore Nocita su soggetto del medico Fabrizio Trecca e trasmesso nel lontano 1975. La vicenda è ambientata in un futuro prossimo, in una Francia dove auto Citroen dalla linea aggressiva convivono con videotelefoni, ci sono macchine che visualizzano i ricordi, i trapianti di organi sono all’ordine del giorno eppure la gente va ancora a divertirsi al circo, fuma nei luoghi pubblici, usa computer che occupano intere stanze. In questo futuro prossimo, o passato alternativo, la pena di morte è ancora in vigore, e viene amministrata tramite decapitazione, dopo una sentenza emessa sia dal pubblico ministero sia da un calcolatore. Viene ghigliottinato il giovane Daniel Lucat , reo di aver ucciso un poliziotto; ha agito su ordine della bellissima Marianne, artista circense con alle spalle precedenti per droga. La donna, membro di una gang di spacciatori capeggiata da un nano, soggioga le sue vittime grazie alla droga contenuta in speciali sigarette. Qualche tempo dopo l’esecuzione, il cognato dell’assassino, il pilota Jean Delafoy, subisce un terribile incidente che lo riduce in coma irreversibile. L’unica maniera di salvargli la vita è un innovativo trapianto di cervello, e il noto Professor Duvall si offre di effettuarlo. Le teorie dei neurochirurghi trovano finalmente un’applicazione concreta e l’intervento riesce, almeno dal punto di vista tecnico. L’organo trapiantato dovrebbe essere privo di qualsiasi ricordo o esperienza fatta dal precedente proprietario, e per recuperare il passato Jean necessita di ascoltare i resoconti della sua vita fatti da parenti ed amici, registrati su audio nastri e tradotti in impulsi elettrici da un potente elaboratore. Dopo una lunga rieducazione, Jean sembrerebbe guarito, eppure assume comportamenti inusuali, analoghi a quelli di Daniel. Giunge ad uccidere Marianne, la strangola nel suo carrozzone dopo uno spettacolo; braccato dalla polizia, viene arrestato e condannato a morte dopo un lungo processo. Jean è ignaro del tipo di intervento subito e crede di aver ricevuto cure assidue, di tipo ordinario, tuttavia appare consapevole di aver commesso il delitto. Durante l’inchiesta il suo avvocato difensore è costretto a rivelare la natura dell’operazione, gettando Jean nello sconforto: verrà ghigliottinato pur restando ignaro del movente, con il dubbio di aver ricevuto proprio il cervello di Daniel. Quando ogni speranza pare perduta, emerge un dettaglio risolutivo…
La vicenda, girata in un sobrio bianco e nero, si compone di quattro parti distinte. Nella prima puntata viene narrata la morte di Daniel e l’incidente, nella seconda si evidenziano i comportamenti anomali del paziente e avviene il delitto, la terza e parte della quarta sono incentrate sul drammatico processo, e l’ultima parte rivela allo spettatore il vero corso degli eventi. La suddivisione appare piuttosto netta, ed ogni episodio è preceduto da un breve riassunto, come usava allora, quando non erano diffusi i videoregistratori e molto era affidato alla memoria dei telespettatori. Nonostante i limiti dovuti ai mezzi, superiori a quelli disponibili in passato eppure sempre limitati se confrontati con il cinema internazionale, lo sceneggiato riesce ancora oggi ad affascinare gli spettatori. Il merito di tanto successo è dovuto ai molti pregi, tali da mettere in ombra le svariate ingenuità. Le atmosfere sono giustamente cupe, le sequenze iniziali dell’esecuzione sono un saggio di bravura del montatore e la magnifica colonna sonora è stata appositamente composta da Simonetti, padre di quel Claudio Simonetti che ha reso indimenticabili i film di Dario Argento. Nel caso di Gamma, la musica risulta importante quanto le immagini e va oltre il compito di accompagnare le immagini, dà corpo agli eventi e crea il giusto pathos.
Lo sceneggiato affronta temi allora considerati di scottante attualità, come il diffondersi della droga tra i giovani. Oggi la sigaretta drogata può sembrare fuori moda, poiché la cannabis abbassa i freni inibitori, interferisce con la capacità’ di concentrazione, riduce l’aggressività e forse favorisce l’insorgenza di tumori, però non trasforma la gente in spietati assassini. Probabilmente la scelta di veicolare la droga sotto la facciata più rassicurante della sigaretta è dovuta ad una sorta di autocensura: la verosimiglianza avrebbe imposto la siringa con tutta la sua esplicita brutalità. Una rappresentazione troppo realistica delle tossicodipendenze avrebbe impedito allo sceneggiato la trasmissione in prima serata. Nella dovuta moderazione, almeno non si scade nei soliti luoghi comuni che additano la dipendenza come un problema esclusivo delle classi sociali disagiate, anzi. Ignoriamo quale fosse l’occupazione di Daniel: ne conosciamo la madre abbattuta dal dolore, e vediamo una casa borghese dotata di comodità di ogni genere. Jean invece era un pilota, sport con la sua dose di rischio e che si intraprende se si hanno almeno i soldi per potersi costruire e mantenere una macchina da corsa, e quindi non è praticato dalle masse.
Davvero trasgressivo invece appare l’atteggiamento nei confronti della scienza: la medicina compie esperimenti senza curarsi del destino delle cavie, animali o umani esse siano. Jean diviene un oggetto da esperimento, il corpo umano una macchina rottamabile da cui si estraggono pezzi utili senza badare troppo alle implicazioni etiche. La medicina viene incontro anche al sistema giudiziario, fornisce assistenza nelle esecuzioni e obbliga i testimoni a ricordare e visualizzare gli eventi di cui sono stati testimoni, con una procedura degna di un processo di Torquemada. Ogni dubbio riguardo alle giustificazioni etiche dei trapianti viene a galla con la vicenda dello sfortunato pilota. Oggi la politica verso simili operazioni è orientata all’incoraggiamento delle donazioni, e probabilmente un medico non si potrebbe esporre ponendo dubbi simili in una trasmissione di una televisione nazionale. Anche le notizie di screening medici effettuati su condannati a morte in Cina, o gli interventi fissati proprio in concomitanza con il lavoro del boia vengono appena sussurrate, e messe a tacere. Di certo ci sono tanti Cinesi convinti di agire in modo retto aiutando il prossimo, tuttavia i dubbi permangono e sono stati evidenziati da organizzazioni sovranazionali, da attivisti per i diritti umani. Negli anni settanta le cose andavano diversamente, forse perché i trapianti regalavano al massimo qualche anno trascorso comunque tra ospedali. Viene anche da sospettare come tanta libertà fosse dovuta alla scarsa considerazione attribuita da parte della critica impegnata alla fantascienza, considerata letteratura di serie Z, si trattasse delle opere di Stanislaw Lem o del più modesto romanzo destinato ad uscite periodiche.
Lo spettatore di Gamma rimane con il dubbio sulle giustificazioni etiche, sulle conseguenze dei progressi della medicina e sui limiti che dovrebbe porsi. Si fa pochi scrupoli il medico, riconosce in Jean l’occasione di esibire al mondo accademico la propria indiscussa abilità e passa all’azione nonostante le perplessità dei colleghi, che rischiano di venire silurati qualora si rifiutassero di collaborare. Le sequenze dell’intervento su Jean non a caso sono parallele per inquadrature e montaggio a quelle dell’esecuzione. La sceneggiatura indulge sui dettagli per mostrare la barbarie e mostrare i limiti di un prossimo domani in cui l’identità dei singoli può venir annullata fisicamente. Viene eliminato fisicamente il criminale, e il trapiantato si ritrova con una personalità ricostruita artificialmente, attraverso i ricordi di parenti e amici: della persona che negli anni si è fatto idee, ha provato emozioni, ha sviluppato interessi, non c’è più traccia. La scienza pare onnipotente, e non c’è alcuna forma di testamento biologico o legislazione a moderare gli eccessi; i dilemmi della ricercatrice Mayer raggiungono le coscienze dei telespettatori e neppure la didascalia finale premia il progresso.
Spoiler!
L’orrore del mondo del domani risiede nelle strabilianti conquiste del progresso, prodigi purtroppo disgiunti dalla maturazione etica. Non a caso la pellicola sfrutta a piene mani il linguaggio del cinema horror, con un montaggio che lascia immaginare quanto non può essere direttamente esibito, con un bianco e nero che crea più ombre che luci, come nell’ Espressionismo tedesco. Ovviamente ci sono concessioni alla moda, e sono quasi sempre compromessi sulla forma: lo sceneggiato accusa i suoi anni se ci si ferma a guardare le chiome cotonate o i pantaloni a zampa di elefante. Gli inseguimenti sulle corsie autostradali sono forse la parte meno riuscita così come la lotta contro i circensi spacciatori. La buona volontà’ del regista non riesce infatti a creare sequenze d’azione paragonabili con quelle viste al cinema o anche solo nei più modesti telefilm. Con estrema consapevolezza dei limiti, Nocita accetta di dilungarsi in scene dal sicuro gradimento, e sceglie di narrare i fatti ricorrendo al linguaggio dei vecchi noir. Anche il tema della perdita della propria identità era assai sentito in quel periodo storico, fa parte della poetica di Michelangelo Antonioni e delle narrazioni di genere, a partire da Who? L’uomo dai due volti (GB, 1974). Nella poco conosciuta spy-story ambientata durante la Guerra Fredda, un famoso scienziato si poneva dubbi analoghi, in quanto dopo un incidente il volto e gran parte del corpo erano stati sostituiti da parti artificiali. Più straziante allora pare il destino di Jean, condannato a riconoscere il proprio corpo apparentemente tornato quello di un tempo, e a covare dentro di sé una sorta di Mister Hyde, alieno quanto indesiderato. Se nel capolavoro di Stevenson la trasformazione è frutto di una scelta consapevole, e nel Frankenstein letterario la mostruosità è tutta esteriore, in Gamma il protagonista fa i conti con lo smarrimento della propria identità. Un argomento esplorato al cinema del periodo, eppure siamo sicuri che le riflessioni non siano più attuali, con il prosperare di social network popolati da maschere che in molti casi sono una rappresentazione migliorata della persona che gestisce l’account?
Giustamente il regista evita un lieto fine esplicito, e i titoli di coda scorrono sul primissimo piano del volto intontito dal sedativo del protagonista, che evita la pena capitale ma dovrebbe restare una creatura alla vita segnata. Se Nocita avesse scelto di narrare la difficoltà di un futuro recupero, di una vita chiusa nel peggiore dei manicomi o tra le sbarre dorate di una residenza per minorati benestanti, il pubblico avrebbe gradito poco l’epilogo. Un lieto fine posticcio avrebbe poi offeso l’intelligenza degli spettatori: Jean è un sopravvissuto, un reduce, e dopo il dramma sarebbe impossibile un pieno ritorno ad una vita soddisfacente e di successo. Nocita era consapevole di poter evitare un epilogo rassicurante e dover rinunciare ad una conclusione verosimile, perciò scrisse la parola fine prima di dover accettare insuccessi o compromessi. Negli anni Settanta era possibile tanta coerenza, oggi smarrita da una televisione che vuole minimizzare qualsiasi rischio e quindi propone vicende collaudate, interpretate da attori dall’aspetto gradevole e dalle abilità interpretative non sempre all’altezza. Basta dare una lettura alle linee guida della RAI di oggi, per innamorarsi di Gamma.