Mostri artificiali: Il colosso di New York (1958)

Proseguiamo in questa seconda parte, alla riscoperta dei “monster movies” dimenticati, che all’epoca terrorizzavano e divertivano il pubblico, portando in scena un campionario di creature mostruose dalle caratteristiche più o meno bizzarre e originali. Alla fine degli anni ’50 è anche l’epoca dei film teen-horror, pellicole fatte velocemente in serie per racimolare un po’ di soldi, andando incontro ai gusti di un nuovo pubblico di giovani in cerca di sensazioni ‘forti’.

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I giganti invadono la terra – (The Amazing Colossal Man)

 

Sulla scia del successo ottenuto dal classico sci-fi movie di Jack Arnold Radiazioni BX: Distruzione Uomo, adattamento del romanzo di Richard Matheson “Tre millimetri al giorno”, dopo pochi mesi venne realizzato I giganti invadono la terra (AIP, 1957) di Bert I. Gordon, regista che si specializzò in film di fantascienza basati sul ‘gigantismo’ sia di esseri umani che di animali di vario tipo. In questo caso, dopo l’uomo che si rimpicciolisce (fino a scomparire) di Radiazioni BX: Distruzione Uomo arriva l’uomo che cresce a dismisura fino raggiungere dimensioni gigantesche, seguite naturalmente da un deterioramento delle facoltà mentali che lo renderanno incontrollabile. Ancora una volta la causa della mutazione sono le radiazioni atomiche che investono il protagonista, il Colonnello Glenn Manning che rimane colpito da un esplosione nucleare mentre cerca di salvare il pilota di un aereo incautamente atterrato nel poligono militare durante il test di un ordigno al plutonio. A parte gli ‘spiegoni’ pseudo-scientifici per far capire allo spettatore l’incredibile fenomeno, inevitabilmente datati e ingenui, il film si fa ancora vedere con un certo interesse quando segue la trasformazione del militare, sia fisica che mentale, tra incubi di guerra e tentativi fallimentari di adattarsi alla nuova condizione. Le interazioni del colosso alle prese con gli oggetti della quotidianità miniaturizzati e con le persone che cercano di aiutarlo, sono la parte del film più godibile, anche grazie alla tormentata e corpulenta fisicità che l’attore Glenn Langan ha messo al servizio del suo personaggio. Gli effetti speciali assai scadenti (soprattutto le sovrimpressioni fotografiche) e il solito finale da monster movies molto sbrigativo (con il gigante abbattuto dall’esercito in cima a una diga in stile ‘King Kong’) limitano la parte del film, in teoria più spettacolare, ovvero quella del colosso che devasta Las Vegas e si arrampica poi su una diga dopo aver rapito la fidanzata, scena diventata comunque iconica di un certo cinema di mostri made in USA. Il finale è talmente frettoloso da risultare persino ridicolo, infatti, nonostante i medici siano riusciti a iniettare nel mostro (con un’apposita mega-siringa) un composto che dovrebbe bloccare e invertire il suo processo di crescita, non si attende neanche di vedere se la cura funziona e l’uomo colossale viene subito ucciso dall’esercito (in una sequenza di pochi secondi), a cui seguono breve pianto della sua fidanzata e titoli di coda. Anche l’apprezzata chiusura pessimistica della storia (con la condanna del pericolo atomico e di un certo militarismo, non così scontata all’epoca) viene parzialmente vanificata dal suddetto difetto. Comunque I giganti invadono la terra ebbe un certo successo al botteghino e ne fu prodotto quindi un seguito sempre per la regia di Gordon, intitolato War of the Colossal Beast (inedito in Italia) con il ritorno del titanico colonnello Manning, evidentemente sopravvissuto alla caduta, però questa volta con il volto sfigurato, espediente che serviva forse a nascondere il fatto che l’attore Glenn Langan non era disponibile per girare il sequel e di conseguenza il ruolo era stato affidato a un altro attore, reso opportunamente poco riconoscibile dal trucco.

 

 

How To Make a Monster

 

How To Make a Monster (AIP, 1958) è una pellicola dallo spunto insolito che ci offre uno scorcio sul mondo dei monster movies da dietro le quinte, mettendo al centro della storia la figura di un abile truccatore, ovvero un creatore di ‘mostri’ cinematografici, Pete Dumond (Robert H. Harris) che viene licenziato senza troppi complimenti dai produttori, ansiosi di passare a nuovi generi di produzioni come i musical ritenuti più in linea con i tempi. Dumond, che ha passato tutta la vita al servizio del cinema horror, non si rassegna alle spietate regole del mondo dei B movies e orchestra una terribile vendetta. Utilizzando strane droghe nelle maschere dei suoi make-up da applicare sul volto degli attori, riesce ad annullare la volontà di due giovani interpreti di mostri (l’Uomo Lupo e Frankenstein) e a costringerli a commettere degli omicidi sotto la sua influenza. Naturalmente i suddetti produttori saranno le prime vittime dei due attori travestiti da mostri. La regia piuttosto scialba e ordinaria di Herbert L. Strock in parte vanifica questo singolare tentativo di metacinema horror ma il personaggio del ‘make-up artist’ Dumond (ben impersonato da Robert H. Harris) sembra ricalcare la vera figura del grande truccatore Jack Pierce messo da parte dal mondo dello spettacolo, dopo una gloriosa carriera come creatore di mostri (uno su tutti il Frankenstein di Boris Karloff). Se la critica allo star-system risulta un po’ banalizzata e la parte investigativa della vicenda si trascina senza troppo ritmo e suspense, rimangono interessanti e godibili i numerosi riferimenti al mondo dei B movies dell’epoca, a cominciare dai due film di successo di allora I Was a Teenage Werewolf (1957) e La strage di Frankenstein (I Was a Teenage Frankenstein, 1957), i cui due mostruosi protagonisti appaiono con lo stesso trucco in How To Make a Monster. Nel finale (a colori) Dumond, ormai in preda alla follia omicida, perirà nel solito incendio purificatore insieme alle sue amate creazioni ‘artistiche’.

 

 

Il colosso di New York – (The Colossus of New York)

 

Il colosso di New York (1959) tratto dal romanzo omonimo di Willis Goldbeck, è un film di fantascienza diretto da Eugène Lourié che ci presenta un mostro di origine artificiale, un po’ Frankenstein e un po’ Golem sia nell’aspetto che nel tormentato comportamento. Per rimediare alla morte del proprio figlio (che diventa nipote nella versione italiana) scienziato, perito in un banale incidente stradale, il dottor Spensser decide di trapiantarne il cervello nel cranio di un gigantesco robot umanoide, per dargli una nuova vita. L’esperimento riesce ma il cervello dello scienziato, intrappolato nel possente ma sgraziato corpo artificiale, fatica ad adattarsi alla nuova situazione e darà presto segni di squilibrio, pronti a manifestarsi in una furia devastatrice rivolta verso il resto dell’umanità, condizione ormai a lui preclusa. Seppur piuttosto convenzionale nella trama e nello svolgimento, Il colosso di New York ha ancora il suo punto di forza e di interesse nella creatura robotica (o meglio cyborg) di aspetto piuttosto inquietante (dovuto al riuscito design gelido ed essenziale) che non si fa dimenticare facilmente: il corpo statuario vestito con un’ampia toga/mantello, gli occhi luminosi che emanano all’occorrenza raggi letali, un incedere pesante ed inarrestabile accompagnato da una voce metallica disturbata da interferenze elettrostatiche danno al personaggio e di conseguenza al film un’aura cupa di ineluttabile tragedia provocata dalla consapevolezza della perdita della propria umanità. Se la maggioranza degli altri film di mostri, risultano piuttosto ridicoli rivisti oggi, Il colosso di New York costituisce un’eccezione: il sofferto ‘risveglio’ dello scienziato nel nuovo corpo robotico, con la visione (disturbata) in soggettiva del padre e con le sue prime incerte e incomprensibili parole, sicuramente non ha lasciato indifferenti gli spettatori dell’epoca. Il tragico protagonista tenterà all’inizio di riprendere la sua vita di studio e ricerca ma l’involucro mostruoso in cui deve vivere lo porta ad odiare gli altri (a cominciare dal fratello che uccide in un accesso di gelosia) con l’eccezione del figlioletto che lo vede come una figura fiabesca. Il merito di aver reso il film visivamente peculiare e suggestivo va dato al regista che ha saputo far fruttare al massimo i pochi mezzi a disposizione. Altre scene clou, dotate di un certo impatto drammatico, sono la visita del mostro alla sua stessa tomba, la camminata nelle acque del fiume, l’assalto al palazzo delle Nazioni Unite, per finire poi con lo ‘spegnimento’ (volontario) per mano del figlio, unico modo per porre fine alla furia omicida. Il lugubre Colosso è stato interpretato fisicamente da Ed Wolff che in trentacinque anni di carriera ha per lo più impersonato giganti, robot e mostri per via della sua notevole statura. L’imponente cyborg fu progettato e costruito da Charles Gemora e Ralph Jester. Il costume stesso misurava un metro e ottanta, pesava 72 kg ed era composto da tela, plastica, gomma tenuti insieme da un filo sottile. All’interno del costume c’erano batterie, cavi, serbatoi d’aria e tubi di ossigeno per le parti meccaniche che aiutavano Ed Wolff a respirare. Poiché ci volevano più di quaranta minuti per far entrare e uscire Wolff dal costume, era stato progettato uno speciale rack per l’attore su cui poteva riposare tra una ripresa e l’altra.
Erede cinematografico del Colosso di New York può essere considerato il personaggio di Robocop altro essere umano intrappolato in un corpo artificiale. Ricordiamo che Eugène Lourié, regista di origine russo-francese, ha diretto altri celebri monster movies (di dinosauri) come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, 1953), Il drago degli abissi (Behemoth the Sea Monster, 1959) e Gorgo (id.1961). Come scenografo ha lavorato al pregevole film di fantascienza catastrofica Esperimento I.S.: il mondo si frantuma (Crack In the World, 1965).

 

 

The Curse of the Faceless Man

 

Il semisconosciuto e inedito in Italia The Curse of the Faceless Man (1958) è un classico esempio di B movie degli anni ’50, destinato alle effimere doppie proiezioni nei cinema drive-in, infatti veniva proiettato insieme a Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space, 1958), entrambi di Edward L. Cahn, veterano realizzatore di pellicole di questo tipo. Film di fattura assai modesta, va recuperato solo per la strana creatura protagonista, ovvero l’uomo senza volto del titolo, che con la sua presenza scenica sostiene da solo la debole e improbabile vicenda. Simile a una mummia/statua priva di lineamenti, il mostro era in origine uno schiavo etrusco, destinato ai combattimenti di gladiatori, riportato alla luce dagli scavi archeologici effettuati tra le rovine di Pompei. Rimasto per secoli pietrificato ma ancora in vita per le misteriose caratteristiche fisiche dei terreni dove era sepolto, viene accidentalmente risvegliato dai raggi X utilizzati per analizzarlo. Come da copione (da King Kong in poi) la creatura rianimata nel museo di Napoli si mette a concupire Tina la fidanzata del dr. Mallon (Richard Anderson), che risulta essere a quanto pare la reincarnazione della donna amata secoli prima dal gladiatore. La mummia resuscitata rapisce la ragazza e si dirige verso il mare, dove la salsedine presente nell’acqua provvederà, molto banalmente e frettolosamente, a ridurlo in polvere. In poco più di un’ora il film dice tutto quello che deve ma anche il trailer sarebbe più che sufficiente. Come già anticipato, si distingue solo il trucco del mostro, discretamente realizzato da Charles Gemora (lo stesso de Il Colosso di New York), anche se oggi risulta difficoltoso sapere con sicurezza chi fosse l’interprete della mummia che quindi, oltre a essere senza volto, rimane pure senza nome. L’unico attore nel cast destinato a una certa notorietà è Richard Anderson che raggiunse la fama in due popolari serial TV, L’uomo da sei milioni di dollari e La donna bionica. Curiosamente Anderson ha dato anche i natali a Richard Dean Anderson, divenuto poi il popolare protagonista di MacGyver.
Risulta relativamente originale il plot sul gladiatore pietrificato redivivo ad opera dello scrittore Jerome Bixby che in seguito si è distinto come autore di alcune tra le più riuscite sceneggiature di Star Trek (serie classica) tra cui l’episodio “Specchio, specchio“. Inoltre insieme a Otto Klement ha scritto il racconto “Fantastic Voyage” da cui nel 1966 è stato tratto il film Viaggio allucinante. Nonostante si svolga tra Pompei e Napoli, le riprese di The Curse of the Faceless Man sono state girate in California, ovviamente per ridurre al minimo i costi di produzione.